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Vieni a vivere a Napoli!

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VOTO: 6.5

Diversi eppure uguali

Una pratica piuttosto frequente nei decenni passati vedeva più registi unire le forze per dare vita a film collettivi composti da un numero X di episodi che, nella maggior parte dei casi, variava dai tre ai quattro, ma poteva arrivare anche in doppia cifra. Generalmente le trame di ogni singolo episodio non sono collegate tra di loro, ma hanno comunque un tema in comune. Si trattava di opere che chiamavano a raccolta cineasti, sceneggiatori, attori e maestranze di grande rilievo che, una volta riunitisi, mettevano a disposizione le rispettive caratteristiche, peculiarità, creatività e stili. I frutti sono ancora oggi nella mente e nei cuori del pubblico e degli addetti ai lavori (da I nuovi mostri a Ro.Go.Pa.G., da Tre passi nel delirio a L’amore in città, passando per Boccaccio ’70 e via dicendo).
Negli anni la suddetta pratica è andata via via scemando, raggiungendo percentuali bassissime. Di tanto in tanto, qualcosa fa la sua comparsa nei festival prima e nelle sale poi, ma si tratta il più delle volte di produzioni estemporanee, legate a eventi, a persone e persino a operazioni commerciali. Di riflesso, sono nate opere come 11 settembre 2001, Eros, All the Invisible Children, Three Extreme o Tickets. Poche opere, queste, ma buone, che fanno da controcampo ad altre meno riuscite (da Feisbum a P.O.E. Poetry Of Eerie, passando per 4-4-2 – Il gioco più bello del mondo). Ma indipendentemente dalla riuscita oppure no, tutte queste iniziative hanno la stessa cronica “patologia”, ossia la discontinuità in termini di omogeneità per quanto concerne gli esisti. Ci si trova a fare i conti, infatti, con film collettivi che raccolgono frammenti deboli e altri più forti. Di conseguenza, si assiste a un cortocircuito che genera a sua volta un sali e scendi simile al tracciato di un elettrocardiogramma, dove figurano picchi di ottima fattura e vistose cadute nella mediocrità. La causa può essere rintracciata nel tema scelto, nelle limitazioni imposte dai scarsi budget a disposizione, ma il più delle volte le responsabilità ci sentiamo di attribuirle a coloro che mettono la propria firma sul singolo episodio, vale a dire il regista di turno.
A questa patologia non è risultato immune neppure Vieni a vivere a Napoli!, pellicola mosaico voluta dal produttore Alessandro Cannavale, che ha chiesto a tre registi napoletani, tra i più interessanti del momento, di raccontare la loro città. Questa torna nuovamente protagonista di un’operazione a più mani dopo il recente Napoli 24, con la quale una moltitudine di cineasti più o meno conosciuti di origini campane hanno, con i pochi minuti messi a loro disposizione, mostrato, descritto e raccontato, con stili, linguaggi, approcci e visioni diverse, le tante facce di Napoli. Anche in quell’occasione la discontinuità negli esiti si era palesata in maniera piuttosto evidenti, catapultando la platea su un pericoloso ottovolante che alternava piacevoli salite a cadute piuttosto rovinose. Lì di comune c’era solo lo sfondo, non i temi trattati, sull’onda di progetti simili, ma di ben altro spessore per i nomi coinvolti, come Paris, je t’aime, Tokyo! o New York, I Love You. Dunque, niente di nuovo rispetto ai precedenti tentativi, eccetto il fatto che al trio assoldato è stato chiesto di mettere come sfondo la città e di concentrarsi su un tema comune: l’integrazione. In Vieni a vivere a Napoli!, dunque, convergono le due componenti strutturali sulle quali normalmente si costruisce questa tipologia di progetto. Presentato in anteprima alla settima edizione del Bif&st, il film diretto da Guido Lombardi, Francesco Prisco ed Edoardo De Angelis, consiste in tre racconti che disegnano un moderno manifesto del cinema partenopeo «stemperato» nei toni della commedia, che è allo stesso tempo un omaggio all’intera città, vista come capitale dell’accoglienza e dell’integrazione multietnica. Una città abitata da un popolo tradizionalista che incontra culture diverse, in questo caso quelle di Cina, Ucraina e Sri Lanka.
Ciascun tassello di questo puzzle audiovisivo fatto di tre cortometraggi di trenta minuti circa l’uno andrebbe analizzato separatamente, perché quanto portato sullo schermo non è assolutamente sullo stesso piano. Le messe in quadro e le confezioni appaiono tutte di buona fattura, al contrario delle scritture che viaggiano su binari opposti e distanti. Si assiste, infatti, a un’ottima partenza che fa ben sperare e si chiude con un cortometraggio meno riuscito. Nel mezzo, il vero anello debole della catena che causa un brusco stop all’ingranaggio complessivo. Stop che a sua volta è la causa principale dell’abbassamento del giudizio finale, che ci ha costretti a effettuare una media così da poter dare un voto al film. Il tallone d’Achille è il secondo episodio in scaletta, dal titolo “Luba”. Quello diretto da Francesco Prisco è senza alcun dubbio il più carente drammaturgicamente, al contrario di “Nino e Yoyo” di Guido Lombardi che dal punto di vista della scrittura e della resa è il più solido. Il primo capitolo ha dalla sua parte una comicità dirompente, una serie di gag divertentissime, grandissimi tempi comici e soprattutto un Gianfelice Imparato in stato di grazia, versione mattatore nel ruolo di uno sfaticato e cinico portiere di condominio, che riporta alla mento alcune celebri personaggi portati in scena e sul grande schermo da Eduardo. I suoi duetti con il piccolo Chang sono irresistibili.
Tutto quanto quello che contribuisce a dare forza e sostanza al corto di Lombardi, qui alle prese con corde che non credevamo gli appartenessero visti i precedenti (Là-bas e Take Five), viene totalmente meno in “Luba”. L’episodio di Prisco non diverte e non riesce mai ad alzare la temperatura emotiva, di conseguenza non fa presa sullo spettatore. Il suo tentativo di raccontare l’ennesima storia di un’eroina per caso non genera altro se non un borioso e macchinoso buco nell’acqua. Più complicata la situazione del terzo e ultimo episodio diretto da Edoardo De Angelis, battezzato “Magnifico Shock”. Al suo interno è possibile scontrarsi con alti e bassi che non consentono al risultato di raggiungere una stabilità sufficiente a mantenerlo sempre a galla. Questo è un problema ricorrente nel suo modo di fare e concepire la Settima Arte, rintracciabile in precedenti come Mozzarella Stories e Perez.

Francesco Del Grosso

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