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Une jeune fille de 90 ans

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VOTO: 8

Ballate con me

Presso il reparto geriatrico dell’ospedale Charles Foix d’Ivry, Thierry Thieû Niang, coreografo di fama internazionale, conduce un laboratorio di danza con pazienti malati di Alzheimer. Attraverso la danza le vite s’incontrano, i ricordi affiorano pieni di rimpianti, di amarezza, di gioia e solitudine. Blanche Moreau ha 92 anni. Durante le riprese si è innamorata del coreografo Thierry. Poiché l’innamoramento è una follia in sé, Blanche non ha più nulla di delirante: la sua malattia è diventata semplicemente la malattia dell’amore.
La semplice lettura della sinossi potrebbe indurre colui che non ha ancora avuto il piacere e la fortuna di vedere Une jeune fille de 90 ans a pensare che l’opera in questione sia il frutto della fantasia dello sceneggiatore di turno, successivamente tradotta nelle immagini e nelle parole di un lungometraggio di pura finzione. Questo perché le dinamiche e i risvolti drammaturgici che ne alimentano il racconto possono sembrare così distanti dalla realtà, impossibili per certi versi, da rigettarla. Eppure la storia ci ha insegnato che spesso la realtà è più forte dell’immaginazione, ma anche che l’amore, seppur non corrisposto e platonico come in questo caso, non ha età e non conosce limiti. Ed è su queste basi che prende forma e sostanza lo struggente e appassionante documentario firmato dalla coppia Valeria Bruni Tedeschi e Yann Coridian, presentato alle ultime edizioni di Locarno, del FilmMaker di Milano e fresco vincitore della sezione International Documentary Competition del Rome Independent Film Festival.
In Une jeune fille de 90 ans, i due registi mettono in fila una serie di piccoli-grandi “miracoli” che si consumano sullo schermo e davanti agli occhi dello spettatore. Quest’ultimo non può rimanere indifferente, perché il flusso ininterrotto di emozioni al quale viene sottoposto è di quelli che ti scaldano e accarezzano il cuore, quanto basta per inumidire le guance e in alcuni frangenti strappare un sorriso. C’è tanta tenerezza e intensità nei passaggi coreografici che vedono protagonisti Thierry Thieû Niang e gli anziani ospiti del reparto, le stesse prodotte dalle parole e dai gesti che si scambiano il danzatore e Blanche. Momenti, questi, che si cristallizzano, che fermano le lancette dell’orologio, capaci di farti dimenticare completamente dove ti trovi e che il tempo per i pazienti dell’ospedale Charles Foix d’Ivry, compresa Blanche, si sta per esaurire. In tal senso, il documentario firmato da Valeria Bruni Tedeschi e Yann Coridian è un inno alla vita e all’amore nelle sue diverse declinazioni (torna alla mente Key House Mirror di Michael Noer e A Simple Life di Ann Hui), non un urlo di morte e solitudine come quello restituito da Vincenzo Mineo nel suo toccante e doloroso Zavorra. Ambientato fra le mura di una casa di riposo, il documentario del 2012 mostra volti, corpi e gesti di chi è stato ai margini della vita, considerato alla pari di una “zavorra”, un peso, proprio come quello che porta dentro di sé, sapendo che la fine è vicina, ma dovendola attendere da solo.
Per il resto, non c’è traccia di alcuna manipolazione o costruzione a tavolino, tuttavia se ce ne fosse anche solo in minima parte, allora è stata abilmente nascosta dal montaggio. Personalmente, riteniamo che la pazienza, l’osservazione e anche un pizzico di fortuna che non guasta mai, siano gli elementi che hanno permesso a questi “miracoli” di manifestarsi davanti la macchina da presa per poi riversarsi sullo schermo. L’approccio attento alla materia e rispettoso nei confronti de, l’aver filmato in punta di piedi tra le stanze e gli spazi comuni del reparto geriatrico, cercando di interagire il meno possibile con gli “ospiti”   Di conseguenza, il pericolo di una spettacolarizzazione della sofferenza e dei sentimenti altrui o quello di una violazione forzata e irrispettosa della privacy, non trova nella timeline terreno fertile dove piantare le proprie radici e germogliare.

Francesco Del Grosso

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