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Silence

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VOTO: 8

L’ultimo padre del Sol Levante

Per Martin Scorsese la Fede è un enigma. Forse il più grande dall’inizio della storia umana. Un gigantesco paradosso che contiene in sé un ossimoro ancora più grande, il quale conduce il senso del discorso alla fatidica domanda sul perché un essere pensante debba sentire il bisogno di affidarsi a qualcosa di trascendente. E questa sua ultima fatica dal significativo titolo Silence – progetto peraltro covato da decenni – non fa altro che ribadire, con mezzi narrativi ovviamente differenti, un concetto già esemplarmente declinato allorquando Scorsese ha posto al centro delle sue opere la problematica della Fede assoluta, quella che in teoria non dovrebbe prevedere alcun “distinguo”. Pensiamo a lungometraggi quali L’ultima tentazione di Cristo (1988), attaccato dagli integralisti cattolici per aver sottolineato gli aspetti eccessivamente umani di un Messia affatto rispondente ai criteri iconografici di routine; oppure al sottovalutato Kundun (1997), quasi un documentario storico-spirituale nel quale veniva messo in risalto il drammatico prezzo da pagare nell’abbracciare una dottrina quale la forma più pura del buddismo, quello tibetano.
Si comprende dunque alla perfezione la fascinazione immediata che il regista nativo di New York deve aver provato per il romanzo omonimo scritto dal giapponese Shûsaku Endô e pubblicato negli anni sessanta del secolo scorso. Un testo capace di aprire voragini di quesiti irrisolti sulla Fede e la ferocia umana, che Scorsese ha fatto proprio dislocando il terreno di battaglia dal martirio fisico – pur ampiamente rappresentato nel film, attraverso il furore tipico dell’autore di Gangs of New York – a quello interiore, esplicitando i tormenti di padre Ferreira e padre Rodrigues, gesuiti arrivati in Giappone nel Seicento con il desiderio di convertire al cristianesimo quanta più popolazione possibile nonché alleviare le sofferenze dei fedeli brutalmente perseguitati dalle autorità locali, propense a ritenere l’ideologia cristiana una sorta di virus dalle minacciose capacità espansive. Del resto Silence è un’opera chiaramente basata su opposizioni, siano esse nette o sottese, poco conciliabili. Come se Scorsese indossasse i panni del chimico ed osservasse le reazioni provocate da abbinamenti fuori dall’ordinario. Alla ricerca di padre Ferreira (un sicuro Liam Neeson), colpito dall’infamante accusa di aver abiurato alla propria fede ed essersi convertito al buddismo con relativa “giapponesizzazione” personale, partono i due giovani gesuiti portoghesi padre Rodrigues (Andrew Garfield, volenteroso ma non memorabile) e padre Garrupe (l’ottimo, lanciatissimo Adam Driver). Due personaggi che incarnano due modi differenti di vivere la religione: il primo propenso a porsi delle domande sul senso ultimo del credere, il secondo dogmatico e disponibile ad accettare risposte non dimostrabili. E con in mezzo, a fungere da simbolico ago della bilancia, la commovente comunità nipponica “affamata” di Cristo. Come ovvio le strade esistenziali dei due si divaricheranno in modo traumatico e, altrettanto ovviamente, Scorsese dedicherà al personaggio di padre Rodrigues il ruolo centrale nella seconda parte di un’opera in grado di sconfinare nell’orrore più assoluto – le persecuzioni delle autorità giapponesi verso i cristiani sono descritte senza censure di sorta – e tuttavia focalizzando nei numerosi momenti di confronto/scontro dialogico, forse sin troppo sottolineati nel corso degli oltre centosessanta minuti di durata, la propria essenza filosofica. Composta di domande alle quali risulta impossibile dare una risposta, sia spiritualmente che eticamente, corretta.
Silence, uno dei titoli scorsesiani più sperimentali, può dunque infastidire lo spettatore perché ne ricerca in modo quasi ossessivo il coinvolgimento nelle questioni di massima importanza sin qui riportate. Ma l’inarrestabile forza interiore del film e la perfezione registica nel narrarlo è tale che disconoscerne il valore sarebbe oltremodo ingiusto. Anche perché Silence è un’opera a valenza universale che si rivolge a tutti, credenti e atei; anelando l’utopica possibilità di un modus vivendi comune a livello globale e nel contempo professando uno scetticismo supremo riguardo culture troppo lontane tra loro per trovare un qualsiasi punto d’incontro. Ora come allora.
Tutto il resto non può che essere silenzio. Un silenzio, quello della clandestinità, di cui noi tutti dovremmo riconoscere subito, anche oggi e alle nostre latitudini, il fragoroso rumore.

Daniele De Angelis

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