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Per un figlio

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VOTO: 7.5

Parlami

Per un figlio fa parte di quella categoria di film che nascono da una o più urgenze. Non tutte le “espressioni artistiche”,  qualsiasi esse siano, ne sono il frutto; non tutte possono contare su una guida forte, capace di indicare il percorso genetico e produttivo da seguire. Tra le vene narrative, drammaturgiche e stilistiche della pellicola scritta e diretta da Suranga Deshapriya Katugampala, srilankese di nascita ma veronese d’adozione (dopo i primi anni passati nel paese d’origine, emigra con la famiglia in Italia, dove coltiva la passione per il cinema d’autore), scorre infatti quel “magma incandescente” di motivazioni personali che non vedevano l’ora di eruttare, riversandosi sulle pagine della sceneggiatura e poi sul grande schermo.
La prima occasione per assistere al risultato del suddetto processo creativo è stata la penultima densa giornata della 52esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, dove la pellicola prodotta da Gianluca Arcopinto ha avuto il suo fortunato battesimo festivaliero nel concorso della kermesse pesarese, portando a casa una meritata menzione speciale.
Per un figlio affonda le fondamenta della sua architettura in un sistema di vasi comunicanti che hanno in una duplice urgenza un importantissimo e significativo punto di partenza: da una parte un conflitto generazionale in ambito domestico tra una madre e suo figlio, dall’altra la volontà di raccontare la migrazione di una comunità nel nostro Paese – quella cingalese – dando ad essa una voce e un volto. Comunità, questa, che cinematograficamente parlando – rispetto ad altre – ha solo di rado trovato spazio, ma quando ciò è avvenuto non è mai stato nella direzione scelta da Suranga: vedi ad esempio Into Paradiso, black-comedy in salsa partenopea ambientata tra i vicoli di Napoli e un vecchio palazzo fatiscente abitato prevalentemente da singalesi emigrati; oppure Machan di Uberto Pasolini, la vera storia di una falsa squadra di pallamano cingalese iscritta a torneo internazionale in Baviera. In entrambi i casi, si tratta però dei toni e dei registri leggeri della commedia.  L’intento del giovane regista è ed era quello di fornire, al contrario, una chiave diversa e più profonda sul e del tema, che non assecondasse in nessuna maniera l’idea e l’immaginario comune che vede (e rappresenta) gli stranieri come dei “numeri” che ricevono solamente dosi più o meno abbondanti di bontà da chi li “ospita” o offre loro opportunità lavorative. In Per un figlio, la volontà era ed è, invece, quella di raccontare di persone che agiscono per amore e con amore.
Cominciamo con il dire che se l’intento è ed era questo, allora il bersaglio è stato ampiamente centrato. Il cineasta italo-cingalese è riuscito a spingersi là dove colleghi connazionali e non si sono fermati a metà strada, realizzando comunque opere meritevoli di attenzione: da Claudio Noce (Good Morning Aman) a Claudio Giovannesi (Alì ha gli occhi azzurri). Ciò non dipende da un’incapacità di penetrare nel tessuto antropologico, sociale e culturale delle comunità che i due cineasti romani hanno deciso di raccontare nelle rispettive opere, bensì nello “svantaggio” di non appartenervi. Non è detto che per descrivere una realtà bisogna per forza di cose farne parte, oltre a conoscerle, ma è innegabile che Katugampala aveva nella manica una carta importantissima da spendere: proprio le origini e l’appartenenza alla comunità nella quale ha ambientato la storia di Per un figlio. Il suo è uno sguardo dall’interno, capace di entrare, mostrare e sostare in un microcosmo che conosce e nel quale sa come muoversi (l’aveva già descritta nella webserie Kunatu – Tempeste)  . Ma lui è riuscito ad andare ancora oltre, volutamente oltre, ed è questa la sua vera conquista. Il merito sta, infatti, nell’essersi concentrato sui personaggi e sulle loro storie, lasciando il resto sullo sfondo. Di conseguenza, è l’incontro/scontro tra una madre e suo figlio, in scena con grande realismo tra le quattro mura di un piccolo appartamento  in affitto, a diventare il vero baricentro drammaturgico. In questo modo, Katugampala universalizza la storia e i personaggi che la popolano, liberando entrambi dal recinto ombelicale nel quale puntualmente molte operazioni analoghe vanno a finire. Non c’è, infatti, alcuna collocazione spaziale. Siamo nella provincia di una città del nord Italia, ma potremmo essere ovunque, con la componente dialettale (il veronese) a rappresentare l’unico elemento riconoscibile. Sunita, una donna cingalese di mezz’età, divide le sue giornate tra il lavoro di badante e un figlio adolescente. Fra loro regna un silenzio pieno di tensioni. È una relazione segnata da molti conflitti. Essendo cresciuto in Italia, il figlio fa esperienza di un’ibridazione culturale difficile da capire per la madre, impegnata a lottare per vivere in un paese al quale non vuole appartenere.
Ne viene fuori uno spaccato di vita  di una famiglia prima ancora che di un’intera comunità all’interno della società tricolore, con le gioie e i dolori, le sofferenze e le conquiste, della quotidianità. Il tutto restituito sul grande schermo con grande naturalezza e un stile libero, ma allo stesso tempo rigoroso, asciutto, pulito ed essenziale, che mira alla verità delle cose e dei gesti. Aiutato nella costruzione di un linguaggio coerente da un montaggio secco, chirurgico ed ellitico.  Non mancano delle ingenuità tecniche, ma quelle fanno parte del gioco e a un’esordiente possono e devono essere perdonate.

Francesco Del Grosso

 

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