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Obey

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VOTO: 6

Strade violente

Prima di avventurarci nell’analisi critica della pellicola in questione occorre riavvolgere le lancette dell’orologio sino al 2011, anno in cui si vanno a collocare il plot, le dinamiche e i personaggi. Questo perché Obey, l’opera d’esordio di Jamie Jones presentata in concorso alla 37esima edizione del Bergamo Film Meeting dopo il più che meritato premio per la migliore fotografia al Tribeca Film Festival 2018, ha fatto di avvenimenti e riferimenti precisi alla cronaca la cornice all’interno della quale incastonare racconto, drammaturgia e one lines.
Il film ci porta nel sobborgo di Hackney nell’East End di Londra, all’epoca identificato come uno degli epicentri delle rivolte di quell’anno, scoppiate come reazione alla sparatoria della polizia ai danni di Mark Duggan in quel di Tottenham. Fatti, questi, con relativi saccheggi, scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, arresti, feriti e devastazioni, ai quali il regista farà riferimento per l’intera durata della timeline attraverso servizi di telegiornali e pagine di quotidiani. Tutto ciò rimarrà dunque sullo sfondo, poiché il cineasta britannico ha scelto volutamente di restringere il campo, concentrando la sceneggiatura su un microcosmo familiare per poi aprirsi gradualmente e via via sempre di più al di fuori delle mura domestiche.
Il baricentro di Obey diventa di fatto circoscritto, ma comunque integrato nel tessuto di un dramma sociale molto più ampio e doloroso, con una vicenda romanzata che si va a incastonare in un contesto storico e tra le pagine di accadimenti reali. L’odissea umana, familiare e generazionale nata dalla penna del regista inglese è quella di Leon, che dopo anni di affido volontario, torna ora diciannovenne a vivere con la madre alcolizzata proprio nel sobborgo di Hackney. Frustrato per la mancanza di un’educazione scolastica e per l’assenza di prospettive economiche, sfoga la sua rabbia sul ring della palestra. Quando incontra Twiggy, una ragazza bella e ribelle che vive in una casa occupata per sfuggire alla pochezza della sua benestante famiglia, qualcosa scatta in lui. Innamorato per la prima volta, per un momento dimentica la sua vita. Ma quando la tensione sociale aumenta, in seguito all’uccisione di un ragazzo di colore per mano della polizia, Leon si trova ad affrontare una crisi di lealtà nei confronti degli amici di sempre e deve decidere se unirsi a loro nella lotta o cercare una nuova vita con Twiggy.
Quello firmato da Jones altro non è che il classico romanzo di deformazione, con temi e dinamiche annesse, concepito per fare da traino e punto focale per una riflessione sulla crisi economica, sulle tensioni razziali e sull’inarrestabile ondata crescente di violenza che ieri come oggi trova terreno fertile tra le strade di tutte le latitudini. E Obey vuole e cerca di interrogarsi proprio sui motivi che hanno portato alle rivolte del 2011, che poi vittima a parte sono gli stessi che ciclicamente hanno innescato, innescano e continuano a innescare le micce. Qui l’autore parte da una goccia d’acqua per mostrare come si sia giunti al punto di ebollizione, quello che ha determinato l’esplosione del coperchio dalla pentola. L’aver puntato la lente d’ingrandimento su un personaggio, sul suo habitat e sul conflitto interiore ed esteriore che lo devasta, serve per riportare il tutto alla radice e per scoprirne la genesi, ma la scrittura in sé non ha saputo gestire fino in fondo il peso di tutta la materia prima chiamata in causa. Il risultato è un cortocircuito che dalle pagine si è esteso alla messa in quadro, quest’ultima tenuta a galla dal realismo impresso dalle interpretazioni (da tenere seriamente sottocchio l’emergente Marcus Rutherford nei panni di Leon) e dalla fotografia di Albert Salas. E se il nostro voto in pagella afferra per i capelli una mera sufficienza, credeteci il merito è in gran parte loro, perché per il resto il cineasta britannico propina cliché e situazioni derivative, che fanno di Obey un film che strizza l’occhio allo Spike Lee incazzato di Fa’ la cosa giusta o alla Kathryn Bigelow di Detroit, quando al massimo può permettersi di rivolgere lo sguardo a opere più alla sua portata come The Hate U Give di George Tillman Jr.

Francesco Del Grosso

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