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Un’altra vita – Mug

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VOTO: 6.5

Chi è senza peccato, scagli la prima pietra

Il 21 novembre 2010 è stata inaugurata – nella città di Swiebodzin, in Polonia – la monumentale statua del Cristo Re, ossia la statua di Cristo più alta del mondo, con un’altezza complessiva di 52,5 metri, per 440 tonnellate. Un vero e proprio motivo di orgoglio, dunque, per un paese come la Polonia, dove, si sa, la religione ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella vita dei suoi abitanti. Ed è proprio questa centralità del cattolicesimo – con tutte le conseguenze che essa comporta – ad essere presa costantemente di mira da scrittori, cineasti ed artisti polacchi di ogni genere. Se pensiamo, ad esempio, ad una regista come la giovane Malgorzata Szumowska, troviamo in questo suo scagliarsi contro le autorità religiose un vero e proprio marchio di fabbrica di tutta la sua cinematografia. Stesso discorso vale, dunque, per il suo Un’altra vita – Mug (in originale Twartz), presentato in Concorso alla 68° edizione del Festival di Berlino e che prende spunto proprio dalla suddetta statua di Cristo.
Jacek è un giovane operaio – addetto alla costruzione della statua del Cristo Re – appassionato di heavy metal ed innamoratissimo di Dagmara, con la quale si diverte ad andare a bellare e a prendere in giro, dall’alto di una collina, i fedeli che, ogni sera, si recano a messa. Dopo aver chiesto alla ragazza di sposarlo, il ragazzo va a lavoro, ma subisce un grave incidente in seguito al quale dovrà subire uno dei primi interventi al mondo che prevedono un trapianto del viso. I giorni successivi all’operazione non saranno affatto facili, in quanto in molti – comprese sua madre e la sua stessa fidanzata – faranno fatica ad accettarlo con il volto nuovo e con tutte le difficoltà che un intervento del genere comporta.
Più che un film sulla religione, sempre presente nella quotidianità degli abitanti di Swiebodzin, questo Mug è un film sull’identità, sull’accettare il prossimo e, soprattutto, sulla società odierna, del tutto sopraffatta da un malato consumismo (particolarmente esemplare, a tal proposito, la scena iniziale in cui vediamo un nutrito gruppo di persone assaltare letteralmente un negozio non appena le sue porte si aprono), che, di fatto, è sempre pronta a “gettare via” qualcosa di danneggiato. Esemplificativo, in questo senso, il personaggio di Dagmara, fidanzata dello sfortunato protagonista, la quale, immediatamente dopo l’incidente, non appena vede il volto sfigurato del suo ragazzo, decide immediatamente di lasciarlo e di iniziare una nuova storia.
Non ne escono puliti nemmeno gli stessi concittadini di Jacek: a partire dai bambini, i quali incontrando il ragazzo per strada non fanno altro che prenderlo in giro, fino agli adulti – la madre di Dagmara in primis – che lo osservano con morbosa curiosità, nessuno – malgrado si dica una persona religiosa, ligia al dovere e morigerata – sembra, in realtà, accettare chi è diverso. Una particolare attenzione merita il personaggio della madre della fidanzata, come già accennato. Ella rappresenta, probabilmente, l’elemento meno riuscito di tutto il film, in quanto eccessivamente caricato da sembrare involontariamente una macchietta e che, con le sue affermazioni riguardanti il dubbio che un eventuale figlio di Jacek possa nascere menomato come il padre, finisce per perdere del tutto di credibilità.
Questo lungometraggio della Szumowska – ormai di casa alla Berlinale – malgrado i numerosi spunti interessanti, risulta tuttavia alquanto discontinuo: se, ad esempio, di fianco a momenti di forte impatto emotivo come le scene in cui vediamo i due giovani, Jacek e la ragazza, ridere spensierati prima dell’incidente o il protagonista parlare con il proprio padre (unica persona a stargli davvero vicino), è anche vero che vi sono elementi decisamente riusciti peggio (la stessa scena iniziale precedentemente citata, ad esempio, risulta gratuita ed eccessivamente didascalica).
Discorso a parte va fatto per l’elemento religione: la Szumowska spara a zero contro l’intero sistema religioso in modo spesso facile e gratuito, seppur pienamente condivisibile. Particolarmente degna di nota, a tal proposito, la figura del prete della città, che, quando tutti sono distratti, approfitta per intascarsi i soldi dell’offertorio e che pecca di eccessiva curiosità circa la vita sessuale della giovane Dagmara, solita confessarsi da lui. Bisogna anche ammettere, però, che di fronte a facili banalità, non mancano momenti particolarmente riusciti e brillanti come la scena dell’esorcismo, in cui il giovane Jacek (per l’occasione esorcizzato, appunto) si diverte a prendere in giro sia il prete che tutti gli astanti.
Un lungometraggio, questo della Szumowska che ha sì da un lato numerose imperfezioni, ma che, dall’altro vanta una grande umanità, soprattutto man mano che la narrazione procede, al punto da classificarsi come una delle sue opere più convincenti degli ultimi anni.
Ultima considerazione: la scelta del brano L’amour toujours di Gigi D’Agostino non solo si è rivelata particolarmente azzeccata come brano di riferimento ai momenti felici tra il protagonista e Dragmara, ma ha anche fatto fare alla maggior parte del pubblico un nostalgico salto indietro nel tempo. Un valore aggiunto ad un prodotto non sempre convincente, ma tutto sommato gradevole e sentito.

Marina Pavido

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