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Moglie e marito

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VOTO: 4.5

Così distanti, così vicini

Tutto molto bello. La commedia italiana che riscopre il conflitto tra i sessi, ibridandolo con la commedia sofisticata in aggiunta ad una spruzzata di fantastico. Due bravi interpreti come Kasia Smutniak e Pierfrancesco Favino, a scambiarsi “mentalmente” le parti nonché le rispettive appartenenze al genere sessuale. Un manipolo di giovani esordienti dietro il progetto, dal regista Simone Godano alla sceneggiatrice Giulia Steigerwalt (con la collaborazione di Carmen Danza), che in molti ricorderanno giovanissima attrice lanciata da Gabriele Muccino in Come te nessuno mai (1999). A pilotare il tutto, in sede produttiva, anche un altro giovane uomo di cinema dai metodi produttivi innovativi rispondente al nome di Matteo Rovere, responsabile della saga Smetto quando voglio nonché regista in proprio del recente e pluripremiato Veloce come il vento (2016). Premesse che, se non altro, facevano di Moglie e marito un progetto sulla carta inconsueto nell’asfittico panorama della risata tricolore contemporanea, sempre strenuamente impegnata a ricalcare modelli da ripetere all’infinito. Il problema è che, tra teoria e risultato finale, poi può esserci davvero di mezzo un oceano. In questo caso di mancanza di coraggio e manifesta incapacità da parte di ogni singola componente di far convergere le forze in causa verso un prodotto di un determinato livello.
Uno spunto non originalissimo, già sfruttato innumerevoli volte dal cinema statunitense – persino il grande Blake Edwards con Nei panni di una bionda (1991) – ma potenzialmente foriero di tematiche da sviluppare, tipo l’inesauribile confronto uomo/donna in ambito sociale, la disparità di responsabilità in seno alla famiglia e tante altre cose che, a maggior ragione in Italia, avrebbero potuto dar adito ad un lungometraggio in grado di divertire facendo anche, almeno un minimo, riflettere. Niente di tutto ciò. Perché la sceneggiatura, maldestra come poche altre, si convince subito che – assodato le sterile pretesto a fungere da motore narrativo, cioè un esperimento cerebrale capace di scambiare le menti tra i due protagonisti – per far ridere si debba far ricorso alla grana grossa di situazioni come la prima erezione di lui/lei o il primo ciclo mestruale di lei/lui, uniformando prontamente Moglie e marito ad un qualsiasi ciclostilato di stampo pieraccionesco. Non vanno meglio le cose in regia, inutilmente piatta e al sapor di spot televisivo, con la luce che inonda spesso l’inquadratura con la palese intenzione di imitare chissà quale modello esterofilo. Mentre per Smutniak e Favino sarebbe bene aprire un capitolo a parte, trovandosi di fronte a due caratterizzazioni (dopo il “transfer”) del tutto differenti da quelle di partenza. Lei da professionale conduttrice televisiva diviene, nell’interpretazione di Favino, in apparenza un gay inverosimile ed esageratamente effeminato tutte mossette estemporanee. Lui, da pacato primario neurologo, nella versione femminile targata Smutniak diventa una sorta di bullo che non esita ad usare le maniere forti ove necessario. In breve: due caricature molto poco credibili. Peccato dunque per i due altrove validi interpreti, i quali naufragano senza scialuppa di salvataggio assieme al film.
Dimenticavamo: ci sarebbe pure una morale, a corollario di quanto appena descritto. Sembra, almeno secondo le menti dietro al film, che donne e uomini, così differenti ma in fondo così uguali, siano destinati a comprendersi a fondo solo scambiandosi idealmente e completamente i ruoli. Allora il rapporto sentimentale, precedentemente (vedere prologo del film) in piena crisi, sarà destinato a rifiorire, come in una favoletta a cui non crede e non interessa a nessuno, distante anni luce dalla complessità della vita vissuta. Se il grande Totò fosse ancora in vita, lui che di comicità caustica se ne intendeva, se ne uscirebbe con la sua celebre espressione “Ma mi faccia il piacere!“. Noi invece siamo qui, a scrivere di un film che ha, ad essere benevoli, lo spessore di una barzelletta al cui racconto qualcuno, magari, riuscirà addirittura a ridere.

Daniele De Angelis

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