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L’ultimo lupo

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VOTO: 5.5

Lupus in fabula

Molte anime si agitano, un po’ disordinatamente a dire il vero, ne L’ultimo lupo di Jean-Jacques Annaud, presentato in anteprima al Bif&st 2015. Ci sono ovviamente i lupi, maestosi nella loro bellezza selvaggia, affascinanti nella loro rigidissima organizzazione sociale e predatori istintivi come ogni animale bisognoso di nutrimento per la sopravvivenza. Ci sono i panorami naturali della steppa mongola nella Cina più remota, di una infinitezza e suggestione che ispirerebbero anche il meno sensibile degli animi poetici. Purtroppo all’appello non mancano nemmeno gli umani, le cui vicende piuttosto banali dal punto di vista narrativo finiscono inevitabilmente con il distrarre l’attenzione dello spettatore dal cuore del film e del romanzo da cui esso è tratto, ovvero Il totem del lupo di Jiang Rong (Mondadori). Nulla di cui stupirsi, comunque. Anzi, il risultato è perfettamente in linea con il modus operandi del regista francese – al quale vanno ad ogni modo sinceri complimenti per aver portato a termine la lavorazione di un lungometraggio per nulla semplice, ad oltre settant’anni di età – del tutto solito a “normalizzare” in ambiti prettamente commerciali pellicole che invece avrebbero avuto ottime possibilità di sviluppo alternativo. Nel caso de L’ultimo lupo, ad esempio, sarebbe stato sufficiente spostare metaforicamente di qualche metro la macchina da presa per realizzare un’opera autenticamente indimenticabile, capace cioè di sposare il punto di vista degli animali piuttosto che quello, trito e ritrito, degli umani. Un coraggio verso una autorialità di scelte che Annaud non ha mai avuto e dubitiamo mai avrà, visto il tempo tiranno che scorre. Non è un caso, del resto, che L’ultimo lupo offra il meglio di sé proprio nella prima parte, allorquando i due giovani studenti pechinesi vengono inviati dal governo centrale di Mao – siamo nel 1967 – a “civilizzare” la popolazione rurale. La lezione di vita sul funzionamento dell’ecosistema della steppa, in parte impartita loro dall’anziano capo-villaggio e in parte imparata per proprio conto, risulta assai interessante senza essere affatto didascalica. In seguito però, con il solito intervento a gamba tesa dell’uomo sulla natura – con corollario di pallida critica socio-politica inserita dal regista – e il dipanarsi del rapporto tra il protagonista Chen Zhen e il cucciolo di lupo da lui salvato dopo la strage di piccoli ordinata dai funzionari del regime, l’insieme tende inesorabilmente ad allocarsi sui binari del risaputo. Il manicheismo vagamente macchiettistico che, in ossequio alla vetusta formula un uomo buono versus tanti altri cattivoni, prende di mira gli stessi funzionari del regime impera e la noia incipiente rende parecchio faticose le due ore di una visione per nulla aiutata da un 3D del tutto superfluo, in un’opera che avrebbe invece dovuto raggiungere la dimensione stereoscopica semplicemente attraverso una chiave emozionale. Perlomeno ne L’ultimo lupo Annaud ci risparmia le melensaggini disneyane – nell’accezione più negativa del termine – presenti ad esempio in un film quasi gemello a quest’ultimo come L’orso (1988), del quale si ricordano ancora con un certo raccapriccio le illustrazioni visive dei sogni ursini (!!); tuttavia alcuni tentativi di umanizzare i lupi (la scelta dei modi di suicidio della coppia di animali braccati) e il finalone intriso di kitsch lasciano davvero perplessi, al pari di un “messaggio” finale che non spinge, come tutto sommato avrebbe dovuto e potuto, il pedale sull’importanza del rispetto che ogni essere umano dotato di intelletto dovrebbe nutrire nei confronti di una fauna sempre più in difficoltà a causa della nostra nefasta incidenza sulle sorti del pianeta.
Sembra quasi il paradigma simbolico de L’ultimo lupo, film un po’ arrogante dove il cinema – quello davvero con la c minuscola – divora senza remore l’aspetto naturalistico della diegesi, sacrificandolo senza nemmeno troppi sensi di colpa sull’altare di una spettacolarizzazione eccessivamente fine a se stessa, peraltro nemmeno riuscita appieno. Una sorta di giusta pena del contrappasso, verrebbe da definirla…

Daniele De Angelis

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