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L’insulto

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VOTO: 7.5

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Solo qualche anno e precisamente nel 2011, alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, fu presentato Carnage di Roman Polanski, tratto dall’opera teatrale di Yasmina Reza, qui si scandagliava nelle due coppie dei protagonisti a partire da un pretesto apparentemente banale: al parco, un ragazzino undicenne aveva colpito con un bastone un suo coetaneo. In pochi minuti la scrittura della drammaturga francese ci faceva notare, anzi, vedere coi nostri occhi, quanto l’uomo possa scattare – verbalmente e fisicamente – di fronte a una parola fuori luogo. In quel caso, certo eravamo di fronte a personaggi appartenenti alla cosiddetta società “bene”, ma che, per l’appunto, arrivavano ad esprimere tutta la loro disumanizzazione e alienazione. Non è certo la prima volta che alla base di un plot o di una storia per il palcoscenico c’è un pretesto per andar a fondo della natura umana; abbiamo voluto citare – pur nelle sue differenze – Carnage per rimanere in tema di Mostra del Cinema. Alla 74esima edizione è stata presentata in Concorso un’opera, L’insulto di Ziad Doueiri, che ci ha colpito per la lucidità e l’umanità con cui riesce a parlare della questione cristiani-palestinesi, creando una storia “piccola”, ma molto significativa senza (s)cadere in una retorica spicciola.
Nei titoli di testa si legge «visioni e opinioni espresse nel film appartengono al regista» (anche co-sceneggiatore con Joëlle Touma) e continua in merito alla politica ufficiale e al governo libanese. La prima immagine rappresenta un comizio e la folla che ascolta attentamente e fedelmente. Subito dopo ci viene presentato Toni Hanna (Adel Karam), cristiano libanese, il quale, in più circostanze, ascolta le parole del politico Bashir Gemayel in vecchie riprese (fu assassinato il 14 settembre 1982, pochi giorni prima dell’investitura ufficiale) imbevendosene. In un giorno come tanti, innaffiando le piante dal proprio balcone, fa scolare accidentalmente l’acqua sulla testa di Yasser (Kamel El Basha), profugo palestinese e capomastro del cantiere situato proprio in prossimità del palazzo dell’uomo. Questo inizia a creare i presupposti per reazioni istintive tra i due. Si percepisce l’esistenza di un muro ideale e ce ne si accorge già dalla porta chiusa in faccia all’uomo nel momento in cui cerca di spiegare a Toni che il loro lavoro consiste proprio nel correggere le infrazioni. Bastano pochi secondi, un gesto istintivo da parte dell’uno, perché l’altro (Yasser) esprima quel primo insulto che innescherà una catena.
L’insulto del titolo non è solo quel «brutto st….o», ma se ne aggiungeranno altri (tirando in ballo anche Ariel Sharon) man mano che il plot si dipana, andando a toccare corde e ferite non ancora rimarginate e che forse non si rimargineranno mai. Il regista nato a Beirut (emigrato negli Stati Uniti per studiare cinema) è stato proprio bravo su questo punto focale: una vicenda ordinaria può mutarsi in una vera e propria guerra civile – sempre che la stessa si sia mai conclusa. «Non risolveremo questo caso fingendo che siamo tutti amici. Io non sono Gesù Cristo che porge l’altra guancia», afferma nella prima parte Toni.
Va detto che sembra proprio una costante di Doueiri far cominciare il tutto con un incidente (basti pensare a The Attack) per dar il “pretesto” ai personaggi di andar a fondo di se stessi e conoscere (magari davvero) chi gli sta accanto. In tal senso si inserisce anche la figura della moglie del cristiano libanese (Rita Hayek), che ci risulta anche più lucida di quanto non lo sia Toni, il quale va avanti per la propria strada come un toro nell’arena della corrida. Toni e Yasser (con famigliari e avvocati annessi) si ritrovano in una spirale per cui non è semplice mantenere il controllo. Dietro i conflitti personali, ci insegna Doueiri, c’è tutto un background storico-politico-culturale da cui non ci si scrolla facilmente, ancor più di fronte a questioni così atroci come lo sterminio di persone. «Questo è un film sulla giustizia. Cioè quello che Toni e Yasser, i protagonisti, stanno cercando. E la ricerca della giustizia è anche una ricerca di dignità», ha dichiarato il cineasta. Ci sorge spontaneo aggiungere che L’insulto è anche un film sull’ascoltarsi e sull’ascoltare l’altro, ad ogni livello.
Sul piano della messa in scena si è optato per un legal drama in cui i fili si intrecciano – persino quelli degli avvocati di accusa e difesa – rifuggendo da strade ed evoluzioni ridicole, tenendo incollato lo spettatore, al di là del proprio credo religioso (qualora lo si abbia) e riflettendo su temi (apparentemente) più grandi e lontani da noi. L’insulto ci interroga sulla natura umana, dove ormai non esiste più nettamente bianco e nero e ponendo in gioco anche lo stesso inconscio, fino a un’evoluzione che ci si augura possiate vedere coi vostri occhi, con la speranza che questo film possa essere distribuito quanto più possibile.

Maria Lucia Tangorra

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