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Legend

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VOTO: 7.5

Brother don’t Kray

Nei decenni passati abbiamo visto più di una volta attori sdoppiarsi (dal Nicolas Cage de Il ladro di orchidee all’Edward Norton di Fratelli in erba, dall’Antonio Banderas di Two Much al Jeremy Irons di Inseparabili, il Jean-Claude Van Damme di Double Impact e persino il Renato Pozzetto di È arrivato mio fratello) e addirittura quadruplicarsi (il Michael Keaton di Mi sdoppio in quattro)  per esigenze di copione. Adesso tocca invece a Tom Hardy farsi in due per Legend, adattamento cinematografico del romanzo di John Pearson dal titolo “The Profession of Violence: The Rise and Fall of the Kray Twins” firmato da Brian Helgeland. Nella pellicola del regista e sceneggiatore americano, presentata nella Selezione Ufficiale della decima edizione della Festa di Roma e prossimamente nelle sale nostrane con 01 Distribution, l’attore britannico si cala nei panni dei gemelli Reggie e Ronnie Kray, capi di un’organizzazione criminale operante nell’East End londinese negli anni Cinquanta e Sessanta. In quel ventennio la coppia  scala rapidamente i vertici della malavita annientando i rivali e spingendo le autorità locali in situazioni compromettenti. Rafforzano il loro dominio con aggressioni, rapine e omicidi, siglano alleanze con boss americani e cercano di trasformare la città nella Las Vegas d’Europa. Ma come il successo rende l’instabile Ronnie sempre più imprudente e quella che era stata un’ascesa senza ostacoli e un’operazione straordinariamente redditizia rischia di degenerare.
Hardy si rivela il vero valore aggiunto dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Helgeland che, fino a questo momento, si era dimostrato meritevole di attenzioni più per le sceneggiature da lui firmate  (da L.A. Confidential a Debito di sangue, da Mystic River a Green Zone) che per le regie a lui affidate di film piuttosto discontinui (Payback – La rivincita di Porter, Il destino di un cavaliere, La setta dei dannati e 42 – La vera storia di una leggenda americana). L’attore si trova, infatti, a fare i conti con due personaggi complessi da gestire e per di più realmente esistiti. In tal senso, sappiamo quanto pericoloso possa essere portare sul grande schermo delle vicende e delle persone vere, in particolar modo quando si tratta di figure che hanno scelto di percorrere strade non propriamente lecite. Del resto, il rischio della mitizzazione dell’anti-eroe e delle sue malefatte è sempre dietro l’angolo. Per fortuna, Helgeland lascia le cose come stanno, cosciente che il decidere di raccontare le azioni e le malefatte dei fratelli Kray significava consegnare al pubblico un “cine-romanzo criminale” dove confluissero gli elementi basici del biopic e del gangster movie old style, esattamente come accaduto in precedenza in film come Nemico pubblico (su John Dillinger), il dittico Nemico pubblico N. 1 (su Jacques Mesrine), Vallanzasca – Gli angeli del male (su Renato Vallanzasca) o il recente Black Mass (su James ‘Whitey’ Bulger).
Hardy si cala in entrambi i ruoli con la medesima maestria interpretativa, regalando alla platea due performance di grande livello che vanno ad arricchire una filmografia con moltissimi punti alti e pochissimi passaggi a vuoto. La sua incredibile presenza scenica, l’approccio sempre in linea con il personaggio di turno e la capacità camaleontica che lo caratterizza, consente anche a Legend di superare quei momenti di standby che non mancano sulla timeline. Il suo apporto è decisivo ai fini della durata che si protrae con qualche intoppo e digressione di troppo oltre le due ore. L’attore inglese, che vedremo nei prossimi mesi in The Revenant di Alejandro González Iñárritu, giganteggia e non gigioneggia mai in scena grazie alla sua fisicità e alla sua bravura. Interpreta con la medesima forza e intensità entrambi i ruoli, così diversi per disegno caratteriale e aggressività (istintivamente spietato il primo, sociopatico compulsivo il secondo), ma che allo stesso tempo rappresentano la stessa faccia malvagia della medaglia. Il suo Reggie però è un passo avanti rispetto al suo Ronnie, con il secondo che lo costringe a sfiorare il caricaturale che, per fortuna, non influisce negativamente sulla perfomance complessiva.
Detto dei momenti di standby, il film parte in quinta, flette e si riaccelera nella parte centrale, per chiudere con il giusto ritmo. Helgeland non può che assecondare i temi e gli stilemi chiave dei generi di riferimento, quanto basta per timbrare il cartellino di quello che allo stato delle cose è la sua opera da regista più riuscita. Di conseguenza, non manca proprio niente all’appello, a cominciare dalla ricca galleria di personaggi che solitamente affollano storie come quella al centro di Legend, a cominciare dai gangster sanguinari con scagnozzi al seguito sino alla donna che riesce miracolosamente ad addolcirli. Il tutto, ovviamente, calato nell’immancabile guerra combattuta a suon di proiettili e pratiche poco ortodosse per il controllo della zona, in attesa della tanto agognata espansione territoriale. Una guerra, questa, che non può che portare a una scia inesauribile di sangue e cadaveri, con acuti di violenza davvero realistica come ad esempio nel due contro tutti nel pub a colpi di martello e pugni che vede impegnati i fratelli Kray e i membri della banda dei Richardson. Questo seguire uno schema preconfezionato causa un’inevitabile prevedibilità del racconto, ma siamo sicuri l’evitarla non era una priorità dello script e di conseguenza della sua trasposizione. Ciò che resta, però, è un film ben recitato e registicamente valido (uso frequente della steadycam e inquadrature spesso lunghe in piano sequenza), scenograficamente e fotograficamente ben confezionato, con una colonna sonora davvero efficace.

Francesco Del Grosso

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