Conversazione con Enio Drovandi in occasione della 13esima edizione del Salento Finibus Terrae
Tutti lo ricorderanno come Cecco il fotografo in Sapore di mare, altri per Totip, il barista nella serie televisiva I ragazzi della 3a C; ma Enio Drovandi è tutto questo e molto di più. Attore e regista di intelligenza sopraffina, senso del ritmo e grande improvvisazione, Dovandi è stato tra i protagonisti di molte commedie made in Italy degli anni Ottanta diventate autentici cult. Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo in quel di Fasano durante le giornate conclusive della 13esima edizione del Salento Finibus Terrae Film Festival, occasione perfetta per scambiare quattro chiacchiere con lui che, tra una citazione e un aneddoto, ha rievocato i suoi esordi, i trascorsi nella commedia, le sue fonti d’ispirazione e anche alcune collaborazioni con illustri colleghi.
D: Sei stato tra i protagonisti della commedia nostrana degli anni Ottanta, come è avvenuto l’incontro con quel genere?
Enio Drovandi: Per risponderti prendo in prestito una citazione: “la vita è come una sessione di jazz, è meglio quando la si improvvisa”. Io me la sono improvvisata tutta. Sono passato da Monicelli a Corbucci, da Steno a Vanzina e Citti, ma nella commedia in realtà mi ci sono ritrovato per una pura casualità della vita, quella di un ragazzo di provincia, per la precisione di Pistoia, che va a Roma per fare l’attore e che ha una faccia da canaglia e degli sguardi che ispirano simpatia immediata come mi diceva Monicelli. Probabilmente, proprio per queste caratteristiche, l’unica strada da percorrere per me era la commedia, quella di film diventati cult come Sapore di mare.
D: Quali sono i registi e gli attori ai quali ti senti più legato professionalmente o umanamente?
Enio Drovandi: Beh, Monicelli ha segnato un’epoca per me, però devo dire che sono un amante della famiglia Vanzina in generale, perché Steno mi vedeva di buon occhio, mentre Carlo mi ha voluto sia per Viuuulentemente mia che per Sapore di mare, pellicole che mi hanno dato una certa popolarità. Ma devo essere sincero, non ne ho uno preferito. È come se chiedi a un figlio se vuole più bene al padre o alla madre. Ti risponderà che vuole bene a entrambi. Quindi ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa e non ho un regista di riferimento, come non ce l’ho nemmeno negli attori con i quali ho collaborato, anche se vorrei spendere una parola per Renzo Montagnani che, a mio giudizio, è stato l’attore più completo tecnicamente e umanamente che ho avuto la possibilità di conoscere. Lui è stato anche un grande doppiatore di se stesso, tant’è che Steno un giorno mi disse: “Renzo è l’unico che non sbaglia mai”. In definitiva, il mio legame con i registi e gli attori con i quali ho lavorato è un legame a 360° e a ognuno di loro ne associo uno.
D: E i tuoi riferimenti?
Enio Drovandi: Nel 1980 ho avuto la fortuna di conoscere Roberto Benigni, quindi è innegabile che abbia segnato l’inizio della mia carriera. Lo andavo a vedere quando faceva gli spettacoli teatrali ed era già famoso. Cercavo di imitarlo, perché all’inizio lui per me era un vero e proprio punto di riferimento. Poi strada facendo sono andato a scoprire Francesco Nuti, che nei miei spettacoli ringrazio sempre, perché come a suo tempo fece Roberto anche lui mi ha aiutato economicamente per affrontare le spese quotidiane. Lui lo rammento sempre, perché lo ritengo il talento poetico per eccellenza della Toscana insieme a Odoardo Spadaro. Penso però che questi siano stati i riferimenti di tutti quelli che come me in Toscana, in quegli anni, aspiravano a fare gli attori, anche perché a parte loro tre non è che ce ne fossero altri, come poteva succedere invece a Roma, Napoli o Milano.
D: Tra i tanti attori o attrici con i quali hai collaborato c’è anche la compianta Laura Antonelli, qual è il tuo pensiero riguardo quanto le è accaduto?
Enio Drovandi: Ho scolpito nella mente il ricordo fantastico di una scena girata con lei in Viuuulentemente mia. In quella scena non resi al massimo e non fu semplice per me girarla, tanto che arrivai persino a bloccarmi sul set. Lei mi aiutò a farla, mi stette vicino e poi la portammo a casa. Ho un ricordo di lei dolce e tenero, quello di una donna sensibile, molto intelligente, amorevole e anche estremamente femmina. La sua bellezza e la sua sensualità erano disarmanti. Poi ci siamo persi di vista per rincontrarci anni dopo per girare un’altra piccola scena insieme. Lei si ricordò di me e di cosa era accaduto. Questo mi fece molto piacere. Per quanto riguarda il dopo, quello che le è successo è dettato sicuramente dall’ambiente, perché quando sei in auge e sei il numero uno hai il mondo ai tuoi piedi e tutti intorno, poi quando il successo va a diminuire quelle stesse persone iniziano a dimenticarsi di te. Poi ci sono anche delle sue scelte che magari non sono state particolarmente azzeccate. La sua storia per certi versi mi ricorda quella di Francesco Nuti. Entrambi con delle personalità insicure, dotati di grandi talenti, che non hanno saputo gestirli nel migliore dei modi. Questo mi ricorda “Se (Lettera al figlio)” di Kipling, nella quale lo scrittore cerca di spiegare al figlio come distinguere il bene dal male, in particolare i versi: “[Sarai un uomo] Se riesci a far fronte al trionfo e alla rovina e trattare allo stesso modo quei due impostori…”. Entrambi non hanno saputo trattarle e questo ha portato all’allontanamento nel caso della Antonelli e della depressione nel caso di Nuti.
D: E a riguardo di Francesco Nuti, qual è il tuo pensiero?
Enio Drovandi: Lui è stato un grande per quel tipo di cinema e per quel tipo di personaggio. L’evolversi del tempo e del personaggio che lui per età e fisico non avrebbe potuto più interpretare hanno causato la parabola negativa di fine anni Novanta e inizi anni Duemila. Incidente a parte, non credo che avrebbe avuto un excursus come attore allo stesso livello di quello degli anni Ottanta. Forse lo avrebbe avuto come regista, perché aveva un istinto meraviglioso. Mi ricordo che un giorno mi disse: “la vita è come un poker di assi: devi avere il silenzio, la geometria, l’improvvisazione e il gusto della sfida”.
Francesco Del Grosso