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La vedova Winchester

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VOTO: 5

Una casa da “incubo”

7 piani, 500 stanze (affrescate con simboli, crittografie e con il numero 13 raffigurato ovunque, 10.000 tra finestre e vetrate (gran parte decorate con oscure citazioni tratte da drammi shakespeariani) , 47 caminetti (molti dei quali non utilizzabili), 2.000 porte (tra cui botole, timpani, frontoni, torrette e portici) e “dulcis in fundo” una stanza segreta per le sedute spiritiche. Il tutto in un gigantesco labirinto di sale confuse, con un dedalo cervellotico di scale che non portano a nulla e di porte che si aprono sui muri. Tranquilli non ci troviamo in una puntata di Case da incubo e nemmeno abbiamo iniziato a dare i numeri. Quella appena descritta, infatti, altro non è che la spettrale cornice dell’ennesimo ghost house movie destinato al grande schermo, di quelli che si vanno di default a iscrivere nel vastissimo filone dell’horror soprannaturale, che ad oggi può contare su grandi classici come Gli invasati di Robert Wise, La casa sulla scogliera di Lewis Allen, House on Haunted Hill di William Castle, Suspense di Jack Clayton, Ballata macabra di Dan Curtis, oltre che su capolavori indimenticabili alla Shining e cult del calibro di Poltergeist di Tobe Hooper, La casa di Sam Raimi e The Changeling di Peter Medak.
La lista è, in tal senso, come abbiamo accennato in precedenza, decisamente ricca di titoli, così come di arcinote case infestate dove le tremende vicende narrate hanno, nell’arco di decenni, preso forma e sostanza cinematografica, regalando alle platee brividi a diverso voltaggio. Ma in questo caso, non si tratta delle location dove recentemente l’irlandese Brian O’Malley, l’inglese James Watkins, il malese naturalizzato australiano James Wam o il messicano Guillermo del Toro, hanno immerso i plot e i personaggi dei loro The Lodgers, The Woman in Black, Insidious e Crimson Peak, tantomeno dove Jan de Bont, Robert Zemeckis o Alejandro Amenábar, rispettivamente diciannove, diciotto e diciassette anni fa, avevano catapultato gli spettatori di turno con i rispettivi Haunting – Presenze (remake del già citato cult di Wise del 1963), Le verità nascoste e The Others. Così come non siamo nemmeno al cospetto di quelle abitazioni maledette che hanno fatto da sfondo ai vari franchise dedicati ai luoghi infestati (vedi le saghe di Amityville Horror, The Conjuring e Paranormal Activity), al cosiddetto J-Horror (da Ju-on a Dark Water) o più in generale alle produzioni asiatiche di stampo horrorifico (ad esempio il Two Sisters del sudcoreano Kim Jee-Woon). Quella in questione, ossia la dimora dell’ultima fatica dietro la macchina da presa dei fratelli Spierig, che vedremo nelle sale nostrane a partire dal 22 febbraio 2018 con Eagle Pictures, infatti, diversamente dalle altre apparse nelle numerose opere da noi menzionate, è stata veramente edificata, così come i fatti e le persone che la vedono protagonista realmente accaduti ed esistiti, a cominciare dalla figura chiave, ossia l’ereditiera statunitense Sarah Pardee Winchester. Ed è proprio da essi che la coppia di cineasti australiani, reduci dalla buona prova offerta con Saw: Legacy, hanno tratto uno script che, a conti fatti, risulterà il vero tallone d’Achille dell’intero progetto.
Analogie, architetture e amarcord a parte, utili però a delineare quanto andremo a vedere da lì a poco, La vedova Winchester ci trascina senza se e senza ma nella Winchester Mansion, una delle case infestate dai fantasmi più famose al mondo. L’imponente edificio – che si trova a San Jose, in California – è una dimora senza fine, edificata per decenni, settimana dopo settimana, 24 ore al giorno, per volontà della sua proprietaria. La donna convinta di essere perseguitata dalle anime uccise dai fucili dell’azienda di famiglia, dopo la morte improvvisa di suo marito e di suo figlio, dedica giorno e notte alla costruzione della enorme magione progettata per tenere a bada gli spiriti maligni. Ma quando lo scettico psichiatra Eric Price, viene inviato nella tenuta per valutare il suo stato mentale, scopre che la sua ossessione non è poi così folle.
La sinossi, il DNA drammaturgico e soprattutto l’approccio al genere in questione da parte dei cineasti australiani, sia in termini di scrittura che di messa in scena e di messa in quadro, sono senza ombra di dubbio di impronta classica e gotica. L’arma orrorifica per generare terrore nel fruitore e scelta per farlo sobbalzare è quella dello shocker puro e crudo. Da questo punto di vista, La vedova Winchester mira a suggestioni e a citazioni più o meno esplicite, rinunciando però a qualsiasi possibile sottotesto o stratificazione, per rimanere nel campo dell’horror più commerciale. In tal senso, se non fosse per le tracce legate al tema del credere o no, o a quello del senso di colpa, la scrittura dei Spierig Bros. sarebbe a tutti gli effetti l’alternarsi di un tracciato piatto con un luna park degli orrori, pronto ad attivarsi ogniqualvolta si ricorre a porte cigolanti e a strane apparizioni sullo schermo. Insomma, ciò che si palesa davanti ai nostri occhi è quanto di basilare si possa offrire alla platea quando di tratta di cinema della paura, poiché la linea mistery viene sfruttata solo in minima parte e l’intreccio giallo che scorre nelle vene del plot, non contribuisce più di tanto ad alzare i decibel della suspense e delle emozioni. E viene da dire purtroppo, con quell’inconfondibile retrogusto di occasione persa ancora presente in bocca quando si pensa che a disposizione, nel ruolo della protagonista, figura un’attrice di grandissima caratura come Helen Mirren, e che alla regia sono stati chiamati cineasti di indubbio talento, autori di una perla come Undead, che anche questa volta hanno dimostrato quanto validi possano essere tecnicamente.

Francesco Del Grosso

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