Vorrei ma non posso
Con un percorso di tutto rispetto alle spalle nel circuito festivaliero internazionale, impreziosito da una serie di importanti riconoscimenti raccolti nel corso delle varie tappe (da Toronto a Londra e Marrakech, passando per Palm Springs e San Sebastián), La camarista di Lila Avilés ha avuto la sua anteprima italiana al 29° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, laddove è stato presentato nella competizione dedicata ai lungometraggi.
Ed è proprio alla kermesse milanese che abbiamo avuto modo di apprezzarne le qualità, a cominciare dall’operato davanti e dietro la macchina da presa che ne solidificano le fondamenta. Da una parte Gabriela Cartol offre alla platea una performance efficace nel suo continuo mutamento dei toni. L’attrice, meritevole di essere tenuta sott’occhio, si cala con semplicità e coinvolgimento nei panni diEva, una ragazza timida e discreta, che lavora come cameriera in un hotel di lusso, una torre di cristallo che domina Città del Messico. Scopriamo la monotonia del lavoro, l’intimità forzata di chi entra in contatto quotidiano con la privacy della ricca clientela, a volte eccentrica, spesso indifferente, il sogno di arrivare a lavorare nelle suite executive dei piani alti. Per raggiungere il suo obiettivo, Eva si iscrive anche al programma di formazione per adulti dell’hotel.
Dall’altra parte la cineasta messicana, qui all’esordio sulla lunga distanza, dimostra già una certa maturità stilistica, lavorando in maniera impeccabile sugli e negli spazi con un’alternanza di camera fissa e in movimento perennemente attaccata al corpo della protagonista. E non poteva essere altrimenti, poiché la cornice tanto quanto il personaggio principale che la percorre da cima a fondo rappresentano il cuore pulsante dell’opera. Di conseguenza, tutti i fari sono puntati su entrambi dal primo all’ultimo fotogramma utile. L’unità di luogo è, infatti, un fattore determinate che l’hardware di ripresa non abbandonerà mai per l’intera durata della timeline, nemmeno quando per la protagonista sarà giunto il momento di lasciarla in prossimità del fotofinish. Siamo in un albergo, mostrato sempre e solo dall’interno e mai dall’esterno, con le stanze, la mensa del personale, gli spogliatoi, i depositi, l’ascensore, la lavanderia e i corridoi, a fare da sfondo alle dinamiche innescate di volta in volta nel racconto. Un racconto, quello di La camarista, volutamente scandito da una narrazione dilatata che non ha cambi di ritmo da registrare e che in alcuni passaggi può risultare pesante agli occhi di quegli spettatori non abituati. Scansione temporale, questa, necessaria a rendere sullo schermo la routine e la monotonia del mestiere, ravvivato di tanto in tanto da più o meno piacevoli incontri con gli ospiti della struttura.
Non è la prima volta che un hotel o una stanza d’albergo prestano le proprie topografie al cinema, basti pensare ad esempio a Valzer, The Big Kahuna o L’estate d’inverno, ciononostante la Avilés riesce a dare forma a un film intimo e profondo, sorretto e supportato dal punto di vista di una donna che vive la vita degli altri cercando costantemente di migliorare la sua.
Francesco Del Grosso