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I Am Not a Witch

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VOTO: 7

Vita da strega

In Zambia, come in altri paesi africani, tra cui il Ghana dove pure la regista ha svolto le ricerche preparatorie, sopravvive la credenza della stregoneria, intesa non come un pericolo bensì come una forma di schiavitù per le donne ritenute dotate di poteri magici e costrette in campi d’addestramento a servire il governo per opere di pubblica utilità, in ruolo di macchina della verità per scoprire il colpevole, per le danze della pioggia nei periodi di siccità e via dicendo. Una nuova categoria di lavoratrici soggiogate. Una delle tante forme in cui si può declinare lo sfruttamento femminile, anche minorile, quella raccontata dalla regista Rungano Nyoni nel suo lungometraggio di debutto, I Am Not a Witch, vincitore al 28° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina. Non più demonizzata e condannata al rogo, la donna è comunque ritenuta depositaria di poteri occulti, magici e sinistri, in quella che è una delle tante declinazioni di una cultura patriarcale misogina. E la condizione di schiavitù femminile è rappresentata da quel nastro, come un guinzaglio, cui le streghe sono legate, che non possono strappare perché, come gli è stato inculcato, altrimenti diventerebbero capre. La superstizione è così un’arma biunivoca, usata per assogettare e sfruttare.

Rungano Nyoni, nata in Zambia ma vissuta dall’età di 9 anni nel Galles, che ha studiato a Londra e in un film che è una coproduzione anglo-francese, non racconta semplicemente una realtà retrograda ancora legata ad antiche superstizioni, bensì un mondo dove coesistono elementi arcaici e moderni. Sono istituzioni di stampo occidentale, come la poliziotta o l’ufficiale bianco, a dover decidere del destino di Shula, la bambina protagonista considerata strega. E le streghe ‘governative’ comunicano tra di loro attraverso moderni telefoni cellulari. Ma il momento clou in questo senso è rappresentato dalla scena in televisione, dove tra una canzone hip hop e l’altra, il conduttore del programma esibisce come fenomeno da baraccone Shula, un fenomeno non in quanto strega ma in quanto strega-bambina. E proprio in questo momento scopriamo identità e ruolo dell’uomo che le ha fatto da protettore, colui che è stato il principale artefice del suo sfruttamento. Si tratta di Mr Banda che è qualificato come funzionario del ministero del turismo e dei “saperi tradizionali”. Significativamente la cultura arcaica è commercializzata, sfruttata a uso turistico, a opera delle istituzioni. Le streghe anziane sono raggruppate, in modo umiliante, per essere meta turistica, tra la gabbia dello zoo o la riserva indiana. Pronte a essere riprese in selfie da turisti portati con un pullman. Turisti in cui ci possiamo benissimo identificare, portati anche noi dentro il pullman. Rungano Nyoni usa più volte nel film un punto di vista interno a un veicolo a motore, come se volesse condurci, noi pubblico occidentale, in quei luoghi. Ci sono poi figure tradizionali grottesche e buffamente vestite, come l’esorcista che per primo certifica le capacità stregonesche di Shula. Mentre successivamente una donna con un costume arcaico sembra essere la vera depositaria del potere, al di sopra del governo che sbeffeggia. E la lingua inglese è appannaggio degli strati sociali più alti, secondo il tipico retaggio del colonialismo, diradando poi in un inglese più sporco e poi nella lingua autoctona Bemba, scendendo nella gerarchia di casta.
Rungano Nyoni usa uno stile narrativo con uso di stacchi pesanti, di ellissi, quasi a voler dipanare la storia attraverso degli episodi. Si avvale poi di un range musicale che spazia da Vivaldi a Estelle. E sa usare la piccola attrice (non professionista) Maggie Mulubwa per farne una Shula dallo sguardo immobile, enigmatico, che parla molto poco. Per una storia dal punto di vista dell’infanzia. Una storia tragica ma raccontata con elementi di leggerezza. Fino ad approdare all’epilogo. In cui finalmente piove.

Giampiero Raganelli

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