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Enrico Medioli, l’ultimo gattopardo

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I novant’anni di uno sceneggiatore italiano

Sapere quale è la vena del regista per il quale si deve lavorare”. Umiltà e immedesimazione, ascolto e comprensione, parrebbe suggerire Enrico Medioli, interrogato sulla virtù fondamentale di uno sceneggiatore. Eppure, a ripercorrerne la filmografia, lui, proprio lui, che ha saputo dimostrarsi duttile abbastanza da venire a capo, con pari onore, di imprese cinematografico-scrittorie tra le più disparate, non sembra essersi soltanto omologato ai ghiribizzi della personalità registica di turno. Anzi. I novant’anni che il preclaro sceneggiatore compie oggi (ebbene sì, è nato il 17 marzo 1925) ci foraggiano di un lieto pretesto per constatare, facendo il punto del suo cursus artistico, che razza d’impronta (autoriale) abbia egli lasciato sui copioni. E anche per rimembrare, con gli occhi madidi di nostalgia, una colta, nobile maniera di sceneggiare che non scansa(va), anzi lo sollecita(va) come necessario, l’incontro con la più alta letteratura, con le sue fabulae, i suoi tòpoi, le sue suggestioni, i suoi grimaldelli spirituali, in barba alla precettistica hitchcockiana secondo cui è più saggio trasporre scritti di basso valore per non rimanere schiacciati dal modello. Se, poi, riparlare di Medioli significhi anche rimembrare un cinema che non c’è più, perché no?
Parmense, allievo, al liceo, di Attilio Bertolucci, Enrico cala, ancor giovane, a Roma. La sua palestra è, innanzitutto, il teatro. E infatti, nel 1958, figura, insieme a Giuseppe Patroni Griffi e alla coppia formata da Vittorio Caprioli e Franca Valeri, tra gli autori della fortunata commedia musicale Lina e il cavaliere, su spartito di Fiorenzo Carpi.
Il 1960 è l’anno decisivo nella conversione alla decima Musa.
Da un lato, infatti, lo scrittore partecipa, non accreditato, allo script di Lettere di una novizia di Alberto Lattuada, uno dei cineasti italiani che meglio hanno saputo raccontare il desiderio erotico femminile. L’elegante ma un po’ accademico romanzo epistolare di Guido Piovene, già sfumato di Diderot e Manzoni, viene tradotto in un conturbante thriller passionale, intriso di umori e pulsioni che Medioli tornerà frequentemente a evocare.
Dall’altro lato, data al 1960 l’incipit dell’annoso e mirifico sodalizio con Luchino Visconti. Per amor di precisione, il palcoscenico li aveva già visti sodali, Visconti regista, Medioli assistente, addirittura nel Don Carlos verdiano allestito al Convent Garden di Londra nel 1958. E insieme a Filippo Sanjust i due comporranno, poi, su musica di Franco Mannino, il libretto della commedia storico-pastorale Il diavolo in giardino, che debutterà nel 1963 al Teatro Massimo di Palermo. Sipari a parte, Medioli riempirà per Visconti tanti fogli di carta quanti lastricano una comunione intellettuale che si estende fino all’ultimo lungometraggio viscontiano; uniche eccezioni, Lo straniero e Morte a Venezia (che peccato! Chissà che cosa avrebbe potuto estrarre Medioli da Camus e da Mann…). D’altronde, regista e sceneggiatore sperimentarono un’affinità e una convergenza di vedute a dir poco straordinarie, nel trasporto per la letteratura e il melodramma, nella concezione apocalittica della Storia, per cui un’epoca che si congeda cede, spesso, il testimone a una congiuntura peggiore, nella propensione verso personaggi crepuscolari (inzaccherati spesso d’autobiografia; viscontiana, s’intende) che assistono, sconfitti, alla dissoluzione dei loro orizzonti di riferimento, nello sguardo attento alle degenerazioni individuali e collettive, spesso indagate assumendo a osservatorio una sessualità morbosa e deviata.
Se il buon giorno si vede dal mattino, l’incipit di cui sopra coincide con un capolavoro che, solo, basterebbe a definire la grandezza dei nostri. Rocco e i suoi fratelli, per giunta, varrà a Medioli il suo unico Nastro d’argento (rapido appello al SNCCI: è ora, forse, di attribuirgliene uno alla carriera). Il prelievo da Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori, in termini contenutistici, è, in realtà, irrisorio, perché nel narrare la straziante iliade dei fratelli Parondi, trapiantati dalla Lucania a Milano negli anni del miracolo economico, del libro di Testori, più che la trama, il film recupera le atmosfere, maleodoranti di sudore, fumi e petrolio, dei bassifondi dove i giovani sottoproletari cercano nello sport o nel malaffare una rivalsa sociale, senza esitare a prostituirsi in senso più o meno lato se capita loro l’occasione. L’impasto di Dostoevskij e Verga fa il resto. Ripartito in cinque capitoli, ciascuno intitolato a uno dei fratelli, Rocco è un manifesto di pessimismo antropologico che non ammette rivali, ma anche una scrupolosa ricognizione delle oscurità interiori che deliziavano Visconti, tra amour fou, gelosia, istinti primordiali e legami di sangue aberranti. Ultima portata, per il regista lombardo, del realismo sociale a cui aveva già largamente contribuito.
I successivi cimenti dei due scavano, infatti, nell’anima decadente di Visconti.
Il gattopardo, Palma d’oro a Cannes nel 1963, è un kolossal in odore di leggenda. E benché la pellicola non raggiunga le altitudini del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, emarginandone, spesso, la raffinata simbologia e la strenua complessità, il Fabrizio Salina di Burt Lancaster incarna il prototipo e l’apoteosi delle figure di sconfitti dal tempo e dagli eventi a cui  Medioli e Visconti hanno dato vita. Il “principone”, pregno del passato borbonico della Sicilia, è l’epitome di un’aristocrazia che si percepisce ormai superata. Da che cosa, poi, se non da quell’Italia unita in cui, un domani, patiranno la fame Rocco e i suoi fratelli? A proposito di pessimismo storico.
Non è un caso se Lancaster presterà il (bel) viso anche al vetusto professore di Gruppo di famiglia in un interno (1974), un ottimo kammerspiel di cui Medioli ha ideato, autonomamente, il soggetto, poi sceneggiato a sei mani con Suso Cecchi D’Amico e Visconti. In questo caso, l’ambientazione è contemporanea (e la drammaturgia piuttosto abile nel suggerire la temperie degli anni di piombo allora in corso), ma al centro della scena è sempre un personaggio disorientato da un mondo che ha cessato di capire, risospinto dalla memoria alle sponde d’ambrosia dei tempi andati, consacrato già a una morte che, alla fine, scenderà sul suo corpo inerme.
Presentato a Venezia nel 1965, Vaghe stelle dell’Orsa vince il Leone d’oro. E il titolo leopardiano  preannuncia le ricordanze da cui Sandra (una fosca Claudia Cardinale) sarà travolta, tornata a quell’albergo ove abitò fanciulla e delle gioie sue vide la fine. Ricordi che impilano segreti familiari compromettenti, uno per tutti l’innamoramento incestuoso del fratello per lei.
Altro titolo, altro incesto. Stavolta, tra figlio e madre, con stupro annesso. E per La caduta degli dèi (1969) Medioli ottiene, insieme a Nicola Badalucco e allo stesso Visconti, la nomination all’Oscar. Le insanie dinastiche che affliggono la pecuniosa schiatta dei Von Essenbeck non sono altro, poi, che il contrappunto dell’incubo in cui sta precipitando la Germania nel 1933. E se l’obiettivo di Visconti era quello di rappresentare in foggia non naturalistica ma teatrale i fatti, lo script, attingendo a Eschilo e Sofocle, a Shakespeare e Wagner, senza risparmiarci alcun colpo basso, ci riesce abbastanza bene.
Nell’immane e meraviglioso Ludwig (1972) l’intersezione tra decadenza e follia genera un ritratto impareggiabile del mitico sovrano di Baviera, erede dei Wittelsbach e ierodulo di un culto febbrile della bellezza, a cui molto è devoluto anche dall’interpretazione patologica di Helmut Berger. Ciò che, ancora, impressiona è come la soluzione diegetica di organizzare la materia in una sequela di flashback, a partire da un’ipotetica inchiesta in cui depongono funzionari di corte e soggetti vicini a un Ludwig II ormai defunto, impedisca a un film lungo quasi quattro ore di diventare farraginoso. E come l’organicità del discorso non venga mai meno.
Con L’innocente, un Visconti minore, si conclude, nel 1976, il tragitto intrapreso dai due sodali. Nell’adattare il testo omonimo di Gabriele D’Annunzio, con l’aggiunta del suicidio finale del protagonista, l’opera non smentisce, in ogni caso, l’orientamento dei suoi creatori, riproponendo, al prezzo di infedeltà coniugali e infanticidi, i temi del dissesto familiare e della latente nequizia delle passioni.
Un altro filmmaker con cui Medioli ha instaurato una forte complicità è Valerio Zurlini. Melanconico cantore di disillusioni sentimentali, il cineasta bolognese consentì a Medioli di rinfrescare la sua dimestichezza con il patrimonio operistico nazionale coinvolgendolo, insieme all’accoppiata Leonardo Benvenuti-Piero De Bernardi e a Patroni Griffi, nella scrittura di un film la cui protagonista femminile, impersonata da Cardinale, si chiama Aida ma ricalca, piuttosto, il destino occorso a Violetta Valéry. La ragazza con la valigia (1961) è, infatti, la storia di una traviata novecentesca indotta, dalla spietatezza della società, a rinunciare all’amore più puro che abbia mai vissuto. Si chiama, invece, Vanina, come la Vanini di Stendhal, la ragazza a cui darà tante pene La prima notte di quiete (1972), l’altra pellicola scaturita dalla sinergia tra i due artisti emiliani. Magnifico mélo che odora di malasorte fin dal titolo, citazione goethiana che allude alla morte, il film del ’72 cesella su un indimenticabile Alain Delon di lana di cammello intabarrato l’ennesima maschera del tracollo esistenziale, rispetto al quale anche l’amore è impotente. Galleria di perversioni e violenze in una Rimini iemale caliginosa e ostile, tra orge e intrighi nefandi, La prima notte di quiete, proiettato senza credits, potrebbe essere preso per un film di Visconti. Chissà come mai…
Insieme, Medioli e Zurlini stesero anche la sceneggiatura originaria del commovente Gli occhiali d’oro, che sarà realizzato nel 1987, quindi dopo la dipartita di Zurlini, da Giuliano Montaldo. Riduzione del romanzo di Giorgio Bassani ambientato nella Ferrara fascista, il film si impernia su un altro loser, tanto umanamente reso da Philippe Noiret: un medico attempato in balìa della struggente ossessione per un giovanotto infingardo e sprezzante.
È l’amico Caprioli a tracciare, invece, le parentesi più leggere dell’opera di Medioli. Benché riempite di una satira sociale amara. Scusi, facciamo l’amore? (1968) sbertuccia maliziosamente l’alta borghesia meneghina in cui un toy boy abbastanza avvenente è considerato, dalle signore locali, alla stregua di uno status symbol da invidiarsi l’un l’altra. E il Lello di Pierre Clémenti, che si lascia spupazzare dalle dame con i quattrini nella speranza di una sistemazione, anticipa, in chiave faceta ma non troppo, il Konrad di Berger in Gruppo di famiglia in un interno, che campa, lussuosamente, degli stessi espedienti. Splendori e miserie di Madame Royale (1970) è, invece, uno dei primi queer movie girati in Italia, ma la commedia en travesti cede presto il passo a una mesta cogitazione sulla solitudine dei buoni. Come Madame Royale, di giorno Alessio, fuor di finzione Ugo Tognazzi.
Ancora maestose ascendenze letterarie nel period drama di Mauro Bolognini La storia vera della signora delle camelie (1981), con Isabelle Huppert, che reinventa, a mo’ di divertissement, la Marguerite Gautier dumasiana e di cui Medioli adatta i dialoghi in italiano.
Stagione più, stagione meno, è a quest’altezza cronologica che si situa anche un biasimevole incidente di percorso: Oltre la porta (1982), di Liliana Cavani, filmaccio in linea con la poetica pretenziosa e scandalistica dell’autrice. Se non altro, in un improbabile groviglio di eros e depravazione, Medioli scartabella bizzarrie psicologiche a lui consentanee e torna, nuovamente, a parlare di incesto, perché il dubbio che Marcello Mastroianni ed Eleonora Giorgi, ostaggi di cotanta lascivia, non siano patrigno e figliastra ma padre e figlia non viene mai fugato.
Negli anni Ottanta, Medioli prorompe, comunque, in un’ultima fiammata, firmando uno dei “suoi” capolavori quando con Franco Arcalli, Benvenuti e De Bernardi, Franco Ferrini entra nella confraternita che con e per Sergio Leone redigerà la sceneggiatura di C’era una volta in America (Once upon a time in America, 1984), rovinoso insuccesso trasformatosi, con il tempo, in un cult che non necessita di presentazioni. Quale sia l’apporto effettivamente offerto da Medioli è arduo stabilirlo, ma non si può non constatare che nel kolossal di Leone la falange dei temi più cari allo sceneggiatore irrompe irresistibile. Il declino del Proibizionismo, l’età aurea del gangsterismo a stelle e strisce, si rispecchia nel declino umano del Noodles di Robert De Niro, perdente su ogni fronte, come di tutti coloro che lo attorniano. Nell’attesa che la prima notte di quiete cali, misericordiosa, a sollevare gli animi dal tormento di vivere.
Negli ultimi trent’anni, il progressivo distacco di Medioli dal grande schermo si è tradotto in un’esclusiva dedizione al piccolo. Naturalmente, a produzioni che, basta scorrere i titoli, da Gli indifferenti a I promessi sposi, da La famiglia Ricordi a Coco Chanel, riaffermano la fascinazione per i libri e per il passato. Certo, l’ipotesi che il cinema, a un dato momento, lo abbia dimenticato, non può non spuntare negli uomini di onesto intelletto. Come l’implicita ammissione che, d’altronde, la “misura” poetica di Medioli faticherebbe a combaciare con il panorama attuale. Perché se lui è sempre grande, il cinema, direbbe la Norma Desmond di Viale del tramonto, è diventato (un po’ più) piccolo.

Dario Gigante

(La foto di copertina è tratta dal documentario “Ritratto di sceneggiatore in un interno” diretto da Rocco Talucci. L’autore della fotografia è Maurizio Pusceddu)

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