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Divagante #7: CHI HA PAURA DELLE STREGHE? (The Witches) di Nicolas Roeg

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Tutte insieme diabolicamente…

L’unica cosa che conta è il finale, rifletteva lo schizofrenico romanziere di Johnny Depp nel deludente adattamento cinematografico della novella kinghiana Finestra segreta, giardino segreto (ma agli adattamenti modesti, per non dire scellerati, il Re e legioni intere di puristi intransigenti hanno ormai fatto il callo).
Ecco, qualcosa di simile dev’essere balenato nella mente di un altro straordinario narratore, Roald Dahl, al termine della visione del roegeriano Chi ha paura delle streghe?, gradevole trasposizione del suo squisito Le streghe (sublime esempio di narrativa-per-ragazzi che non manca di stupire, appassionare ed emozionare anche gli adulti) guastata da un finale ruffiano e irritante contro il quale lo scrittore manifestò un disappunto sospeso tra collera e indignazione. Il Mort Rainey di Secret Window aveva ragione: il finale di una storia ha un peso specifico determinante nell’economia (e nella percezione) della storia stessa, un peso che non di rado influenza in modo netto e spietato il giudizio di chi la storia la legge o, in questo caso, la guarda. Come un dessert inappagante può rovinare una cena sin lì perfetta, così un epilogo stucchevole, prevedibile o peggio ancora prolisso (9 finali e mezzo scriveva Age, stimolato dalla presenza di Kim Basinger, a proposito di Batman e dei suoi «sottofinali») ottiene spesso il desolante risultato di precipitare nell’oblìo quanto di buono c’era stato in precedenza. Tanto per non smentirci – e al tempo stesso non disattendere i divaganti propositi della nostra rubrica – balocchiamoci per un istante alla ricerca di titoli di rispetto viziati, per così dire, dal proverbiale scivolone sul più bello: c’è lo Spielberg più melenso nella chiusa de La guerra dei mondi (e a proposito di rispetto è tanto quello dovuto al regista di Duel e Lo squalo, per non parlare del memorabile Colombo Un giallo da manuale, che ci limitiamo a liquidare l’infausta ricomparsa del «figlioccio» di Cruise con l’aggettivo melenso, e non col più appropriato tremendo); ci sono il mezzo capolavoro The Game – Nessuna regola (che tolta l’ultima decina di minuti è col cronachistico Zodiac il miglior Fincher) e il Fernet Branca fiorentino de Il cavaliere oscuro – Il ritorno. Ma di esempi, come sempre in questi casi, ce ne sarebbero a volontà. Ebbene, Chi ha paura delle streghe? rientra anch’esso nel novero dei Film Spassosi Dal Finale Deludente; perché se a Dahl non riuscì proprio di perdonare l’affronto in celluloide al delizioso epilogo del suo libro (lieto fine sui generis, come ebbe a definirlo lui stesso), è pur vero che la pellicola, complice il tocco inconfondibile e visionario – che alcuni, sbagliando, definirebbero «estetizzante», mentre in esso vi è assai poco di gratuito – di un immenso cineasta come Nicolas Roeg, aveva offerto sin lì più di un motivo di gioia e di spensierata meraviglia al nostro sguardo appassionato. Il che può sembrare paradossale se pensiamo alla poetica brutale, sensuale, malinconica e perturbante del regista di A Venezia… un dicembre rosso shocking, ispirato a un fulminante racconto di Daphne du Maurier, e L’uomo che cadde sulla terra.
Ma in questo caso i semi per un tipico «gioiello-per-famiglie» (definizione riduttiva come tutte le etichette, ma tant’è) si devono alla penna Dahl. Pubblicato dalla londinese Jonathan Cape nel 1983 – e giunto in Italia in quella magnifica collana Salani, Gl’istrici, che hanno punto (e pungono tuttora) la fantasia di milioni di fanciulli più e meno attempati –, Le streghe narra la storia di un orfanello accudito (ed erudito) dall’amorevole nonna esperta di streghe (quelle vere, quelle che sembrano donne qualunque, vivono in case qualunque, indossano abiti qualunque e fanno mestieri qualunque, ma che al tempo stesso sono calve, hanno «artigli aguzzi e ricurvi come quelli dei gatti», grandi narici e piedi squadrati e senza dita) il quale scopre che l’hotel dove alloggia è teatro dell’annuale ritrovo delle fattucchiere britanniche, riunite dalla terribile Strega Suprema e intenzionate a trasformare ogni bambino d’Inghilterra nientemeno che in un topo!

La migliore delle incantevoli «fiabe moderne» di Dahl (in compagnia de La fabbrica di cioccolato, ’via) racchiude e sintetizza le peculiarità stilistiche dell’autore: il tocco a un tempo delicato e dissacrante, la prosa asciutta e spiritosa, la satira complice e spensierata, l’abile mix di humour e orrore, incanto e tenerezza, amaro e grottesco (tutti ingredienti che si ritrovano, sontuosamente miscelati, nelle meravigliose raccolte dahliane riunite nell’imprescindibile Tutti i racconti edito da Longanesi). Ma, cosa più importante, Le streghe cerca (e trova) la poesia nell’oltraggioso, il divertimento nella paura e persino un lieto fine in un finale che lieto, ma solo a una lettura superficiale, non è. Non accettate caramelle dagli sconosciuti, suggerisce Dahl. Proprio con i dolci, e in particolare con il cioccolato (e c’è una scena nel film di Roeg in cui una strega approccia il giovane protagonista, ribattezzato Luke, e gli offre una tavoletta racchiusa da una carta dorata che pare proprio un Cioccocremolato Wonka al Triplo Super Gusto), le perfide fattucchiere intendono «avvelenare» i golosi marmocchi inglesi. Lo stesso protagonista viene tramutato in un topolino con la Formula 86, Pozione Fabbricatopo a Scoppio Ritardato; e un topolino, per venire al motivo della discordia, rimane anche alla fine della storia («Così moriremo assieme», esclama felice all’amata nonna conscio della scarsa longevità dei roditori e memore del dolore per la perdita dei genitori in un incidente d’auto: a dire che si può – e forse si deve, a patto di vantare il tocco leggiadro e discreto di un Maestro – parlare di «abbandono» in un libro per ragazzi). E per un autore che si dichiarava estraneo a ogni morale (ma è cosa nota che gli autori siano spesso i peggiori giudici del proprio lavoro) è singolare che il ragazzo-topo di Dahl, in un passo poetico e commovente, si addormenti sul cuscino della nonna con la maturata convinzione che «non importa chi sei né che aspetto hai. Basta che qualcuno ti ami».
Peccato che l’aspetto, a Hollywood, conti eccome.
E così, al termine di un film che è certo ambizioso e accattivante, oltre che ricco di momenti surreali e squisitamente inquietanti (da manuale la prima mezz’ora in cui Roeg, tra le suggestive location norvegesi, e precisamente nell’incantevole Bergen, e macabri dettagli come l’«artiglio» di una strega che rimesta un misterioso preparato accarezzando il più classico dei famigli, un gatto nero, evoca un’atmosfera di avvenente minaccia), ecco che il piccolo Luke e la nonna (una Mai Zetterling assai meno stilizzata e pachidermica della nonna rappresentata nelle splendide illustrazioni di Quentin Blake) ricevono l’inattesa visita di una giovane fattucchiera passata, chissà perché, alle Forze del Bene, che in una moderna rielaborazione di Pinocchio (ri)trasforma il burattino, pardon il topolino in un «bambino vero». È così che la banalità trionfa sulla poesia, lo scontato sull’imprevisto, lo stereotipo sull’invenzione. Con un finale di rara leziosità (da coma diabetico il saluto della «strega bianca» che agita la manina stropicciando un sorrisone da spot pubblicitario) che non è certo farina del sacco di Roeg.
Non che si pretendesse un finale ambiguo o sospeso, alla Friedkin per intenderci. Ma mette tristezza pensare che il regista, dopo che Dahl aveva minacciato di negare il proprio appoggio al progetto (in termini di accredito) e supportato dallo script dell’esperto Allan Scott, aveva girato anche un epilogo più fedele all’originale cassato poi su suggerimento del manager del produttore Jim Henson (il celeberrimo creatore dei Muppet), Bernie Brillstein, e di uno stuolo di spettatori improvvisati riuniti in un pugno di avvilenti sneak preview (una pratica, quella di affidarsi al giudizio di un «pubblico a campione» calpestando le scelte e le sensibilità dei cineasti, radicata nella storia dell’industria hollywoodiana e oggigiorno portata alle sue estreme conseguenze, ennesimo segno d’imbarbarimento del panorama mainstream statunitense) che decretarono lo stupro del finale – e della morale – di Dahl. (E viene da chiedersi cosa sarebbe stato di un film come Il sorpasso se a decidere della sorte di Trintignant fosse stata una messe di schede anonime compilate da platee di «giudici per caso»).

Un peccato. Perché qualcosa di buono, al di là e oltre il talento di Roeg (la cui macchina da presa, tra bizzarre soggettive ed esaltanti primissimi piani come quello sugli occhi di una strega in cui brillano «fuoco e ghiaccio insieme», celebra un oscuro quanto elegante equilibrio acrobatico), Chi ha paura delle streghe? lo offre sul serio. Dal volo accelerato sulle candide distese norvegesi dei titoli di testa (introdotti da una perfida risata e simboleggianti una adrenalinica «cavalcata di scope» che vezzeggia quel folclore stregonesco da cui il film prenderà beffardamente le distanze) alle imprese della factory di Henson che, dopo i precedenti di Dark Crystal e Labyrinth – Dove tutto è possibile, materializza le grottesche invenzioni di Dahl con favolosi trucchi prostetici. Su tutti la raccapricciante Strega Suprema di una splendida Anjelica Huston, costretta per l’occasione a due ore (addirittura sette secondo una di quelle leggende che affiorano inevitabilmente in questi casi) di seccante makeup giornaliero. Per non parlare delle gustose caratterizzazioni (e stilizzazioni) dei personaggi di contorno: dal sarcastico, incontentabile padre di Bruno (ragazzino a sua volta ingordo e viziato) al cuoco dell’albergo che corregge una eccessiva presa di sale sbattendo una cotoletta contro un sudicio bidone dell’immondizia, e che in un esilarante siparietto si dibatte istericamente nel tentativo di far uscire Luke-il-topo dai propri calzoni. Dulcis in fundo, l’inflessibile direttore dell’albergo (ma è tutta ipocrisia, dal momento che si balocca non appena può con una sciatta domestica) è il bravo Rowan Atkinson.
Buoni «ingredienti» che non bastarono a sovvertire i catastrofici esiti commerciali di un film forse troppo sofisticato per i più piccoli e troppo puerile per l’adulto disincantato. Ma va detto che presagi niente affatto rassicuranti aleggiavano su The Witches sin dal termine delle riprese.
Completato sul finire dell’88, infatti, il film fu «dimenticato» per oltre un anno dopo il taglio del ramo distributivo della Lorimar (che produsse con Henson), fino a quando la Warner, dopo un pugno di fallimentari anteprime a Orlando e Sacramento, lo presentò in una première londinese il 25 maggio ’90. Henson era morto appena nove giorni prima, a soli 53 anni, stroncato da sindrome da shock tossico streptococcico.
Quale (macabra) ironia. Chi ha paura delle streghe? è non soltanto il testamento cinematografico del creatore dei Muppet, ma l’ultimo adattamento dahliano a vedere la luce prima della dipartita dello scrittore, che si spense nel novembre ’90 quando il film aveva incassato la «miseria» di dieci milioni di dollari.

La cosa più importante della storia è il finale, sosteneva Mort Rainey. E questo finale rappresenta la mesta conclusione di un film incompreso.
Ma consoliamoci. C’è sempre parecchio cinema nel cinema di Roeg.

Stefano Leonforte

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