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Divagante #2: La nona porta di Roman Polanski

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Il Diavolo, probabilmente

Ci sono rubriche pericolose, non vanno lette impunemente.
Se provassi a sostenere che questo «pezzo» si discosta dal «pilota» dedicato a Profezia e batte invece un sentiero lineare che non cede all’incanto insidioso ma ammaliante di opportune (e inopportune) digressioni mentirei sapendo di mentire, venendo meno a quell’errare (dis)organizzato a cui questa rubrica, in omaggio al soprannome di una penna squisita, il Dottor Divago Gianni Clerici, s’intitola.

E così, caro incauto lettore, tanto vale gettare la maschera e introdurre l’ospite d’onore di questo nostro secondo (Divagante) appuntamento. Un ospite sfuggente, beffardo, dalle mille facce. Il Lon Chaney delle Tenebre. Meglio, degli Inferi. «Oh… io ho tanti di quei nomi», affermava impersonato da Al Pacino – uno dei suoi mille, appunto, alter ego di prestigio – nel prolisso e diseguale L’avvocato del diavolo. Un «normalissimo diavoletto assatanato», si (auto)definiva l’irresistibile seduttore Jack Nicholson nel grottesco Le streghe di Eastwick. E d’altra parte, se l’ironia non gli ha mai fatto difetto e dal Faust murnauniano alle innumerevoli (spesso spassose) epifanie cartoonesche non di rado egli è apparso sullo schermo esibendo ali e corna o sembianze «satiresche» di retaggio mitologico-pagano (i piedi caprini e la coda a punta cui allude il Louis Cyphre di De Niro, e siamo al terzo mostro sacro, nel torbido gioiello di Alan Parker Angel Heart – Ascensore per l’inferno), è vero anche che di forme, nell’avventurosa epopea del cinema satanico, Mefistofele ne ha assunte parecchie.
Persino il Re dei Cattivi Spiriti della Tempesta Pazuzu, colto da strategica invidia (delle Tenebre), dichiara di essere il diavolo ne L’esorcista di Friedkin (ebbene sì, nei grandi film accade che i personaggi, specie se sono demoni, mentano); e se in tema «possessioni» vale la pena ricordare i pregevoli Chi sei? di O. Hellman e R. Barrett (alias Ovidio Assonitis e Roberto D’Ettorre Piazzoli), laico e «atemporale», e L’anticristo di Alberto De Martino, visionario, morboso e dalla struggente «atmosfera romana» (esempi plastici del migliore cinema di genere, quello sì derivativo – provocazione: quale cinema non lo è? – ma capace di gettare un nuovo sguardo su un tema e un immaginario ormai consolidati, facendoli propri, rielaborandone spunti e suggestioni seminali, in questo caso la vox diaboli incline al turpiloquio e la zuppa di piselli di Friedkin e i surreali simbolismi di Polanski), va anche detto che il maligno non ama le luci della ribalta. Trama nell’ombra, al riparo delle quinte. La più grande beffa del diavolo è far credere agli uomini che lui non esiste, scriveva Baudelaire. E difatti sono tutt’altro che infrequenti i personaggi in celluloide che oppongono alle apparenze demoniache uno sprezzante scetticismo.
«Insomma il diavolo non si fa vivo…» deduce in questo caso Johnny Depp stropicciando il suo irritante, sarcastico sorriso d’ordinanza proprio in faccia all’imponente Frank Langella.
Il film è un film curioso, La nona porta, il «palcoscenico» intrigante (un sancta sanctorum di pregiati volumi, i più rari, i più scelti, dedicati al Principe delle Tenebre in persona, e del resto il codice di accesso agli scaffali, 666, lasciava pochi dubbi al riguardo), l’interlocutore misterioso e inquietante, graffiante e lapidario. Meglio non averci a che fare, verrebbe da dire; e se proprio non se ne può fare a meno, perché paga bene (e Depp, l’abbiamo intuito sin dall’incipit del film, è un avido, cinico figlio-di-buona-donna), meglio non tentare di menarlo per il naso. Tanto più che dimostra un acume notevole: «Lei è uno di quei tipi magri, irrequieti e affamati di cui diffidava Giulio Cesare», sibila. «Uomini che accoltellano gli amici alle spalle». Senz’altro vero. Ma è vero altrettanto che Depp è un mercenario, e che «nulla è più affidabile di un uomo la cui lealtà può essere comperata col denaro». Insomma, tra loschi figuri ci s’intende. E così, sopravvissuto agli inganni, alle miserie, all’omertà e alle diavolerie dell’incantevole villaggio di Sleepy Hollow, dove peraltro – in una curiosa e draculesca coincidenza – l’aveva spedito il conte, pardon il giudice dalle folte sopracciglia e dagli occhi penetranti di Christopher Lee, Depp si vede affidare un altro incarico «da incubo» dal conte, pardon dal ricco satanista di Langella in questo film d’argomento luciferino (co)scritto, prodotto e diretto da Roman Polanski. Che d’altra parte – ma La nona porta, puntualizziamolo sin d’ora citando un pittoresco toledano del film, no tiene el confronto – il genere aveva già contribuito a nobilitarlo col sublime Rosemary’s baby (Nastro rosso a New York).

L’incarico, dicevamo, è delicato: il buon Depp, ovvero il «cacciatore» di libri rari Dean Corso, avvinazzato e tabagista quanto basta (vale a dire a livelli da quadro clinico preoccupante), viene ingaggiato per dirimere un enigma che riguarda le tre copie «superstiti» di un testo esoterico, Le Nove Porte del Regno delle Ombre di Aristiche Torchia, arso in compagnia del suo autore nella Venezia inquisitoria del Seicento. Le nove incisioni contenute nell’opera, che Torchia – narra la leggenda – scrisse in alleanza con il diavolo, celerebbero la chiave per evocare il maligno. Peccato che Langella, ovvero il mefistofelico bibliofilo Boris Balkan, possieda una delle copie «sopravvissute», e come giustamente fa notare Corso Lucifero non si fa vivo. Da qui la necessità di una attenta, scrupolosa analisi comparativa con le altre due – custodite, tanto per rendere più suggestivo il (di)vagare di Corso, nel Caro Vecchio Mondo, e precisamente a Sintra, in Portogallo, e a Parigi.
Soltanto una, sospetta Balkan, è autentica. Ma quale?
Lo spunto, accattivante, muove da un romanzo di Arturo Pérez-Reverte, “Il Club Dumas“, che pubblicato nel 1993 riscosse un notevole successo trasformandosi in un «caso letterario» (definizione forse un po’ volgare, ma tant’è) e in modo tutto sommato prevedibile in un copione cinematografico firmato Enrique Urbizu. Copione che passando ostinatamente di scrivania in scrivania (un peregrinare non dissimile da quello del suo protagonista) finì per avvincere un lettore d’eccezione; un lettore e cineasta (ma soprattutto un autore) che con il diavolo, e non soltanto il diavolo dagli «artigli» squamati che «cavalca» Rosemary in quella splendida, ipnotica sequenza onirica ripresa pari pari – un po’ come il film nel suo complesso – dalle pagine di Levin, ma con un diavolo di questo mondo, aveva disgraziatamente già avuto a che fare. Avvinto, Polanski, ma non convinto. Al punto da infrangere gli schemi tradizionali e procedere, per così dire, alla rovescia, ritornando alle origini e abbandonandosi al «racconto» di Pérez-Reverte divorandolo, assimilandolo, per convincersi infine – non senza una punta di eccitazione – del suo fascino sinistro e contraddittorio.
Prende forma nella mente di Polanski il frustrante, proverbiale antagonismo che tormenta come uno spettro le notti di tanti cineasti. Il paradosso di King.
Perfetto per un film, eppure inadattabile.

Non solo di indovinelli satanici, del resto, tratta “Il Club Dumas“: romanzo «divertente e ricco di suspense», dirà Polanski celebrandone il potenziale cinematografico, ma anche assai complesso. Il Corso letterario si dibatte infatti tra due indagini: una diavolesca, l’affaire Nove Porte, l’altra – il titolo, non il cuore, è rivelatore – concernente il manoscritto originale (o così pare, a Corso l’arduo compito di provarne l’autenticità) di un capitolo de I tre moschettieri: Il vino d’Angiò. It’s All Too Much, avrebbero commentato i Beatles. Tant’è che nonostante l’ostentato scetticismo («Non credo nell’Occulto») Polanski sacrifica ogni riferimento a Dumas e scommette sul fascino irresistibile (e maledetto) dei cosiddetti «pseudobiblia» (non solo il Nove Porte, ma il Delomelanicon scritto da Satana stesso, che ispirò le incisioni di Torchia), firmando un nuovo script – a partire dal lavoro di Urbizu, comunque accreditato – col fidato John Brownjohn.
Il risultato è un film ossimoro, impacciato ma elegante, discontinuo e seducente, un noir dal fascino arcano e grottesco – alcuni, anzi molti direbbero maldestro – in cui precipitano mistero, avventura, tensione e ironia. La riflessione sul fascino del Male, certo, è scontata, ma è pur vero che ad attrarre Polanski è il motivo del «viaggio iniziatico», un itinerario «distorto» e tenebroso che si dipana sul doppio binario dell’indagine oggettiva (lo studio dei volumi maledetti) e di quella esoterica (la «decodifica» del rompicapo figurativo inteso a dare accesso al Regno delle Ombre). Ecco perché il film, pur con tutti i suoi difetti, l’incedere zoppicante e le cadute nel ridicolo involontario, ammalia. I due piani, quello razionale e quello irrazionale, si rincorrono nelle avvincenti peripezie di Corso-il-detective, moderno Philip Marlowe che si attarda (e noi con lui) sulle incisioni di Torchia (ma tre per ogni copia sono firmate «LCF», a dire che tutti i Nove Porte «superstiti» sono autentici, tessere di un unico, demoniaco mosaico) «tallonato» dai temi ora bizzarri ora sinuosi di Wojciech Kilar e da una giovane misteriosa (e fluttuante) che pare trovarsi costantemente al posto giusto al momento giusto.

Non (solo) una provocante guardia del corpo. Il diavolo, probabilmente… Forse un angelo caduto, un conturbante Emissario degli Inferi. E questo, in un film che pure è assai avaro di chiarimenti, e ben venga, è limpido come un lago senza fango, come un cielo d’estate sempre blu, perché la bella femme fatale dai capelli dorati (e dagli occhi verdi, anzi cangianti) si danna anima e corpo, letteralmente, per permettere a Corso di varcare la (fatidica) nona porta. A interpretarla è Emmanuelle Seigner, moglie complice e musa ispiratrice di Polanski – radiosa anche se «costretta» in una mise da studentessa in InterRail –, ma qualunque altra fanciulla converrebbe con lei: meglio baloccarsi tra le fiamme dell’inferno con il Corso di Depp che con il Balkan di Langella.
Proprio attorno a Depp, «il lupo travestito da pecora» devoto alla Scellerata Trinità soldi, donne, affari, ruota la pellicola. Scaltro, sfrontato, disincantato e indisponente, trasandato e affascinante, con l’eterna sigaretta in una mano e l’ambrato, rilucente ballon di liquore nell’altra. L’archetipo dell’antieroe più dissoluto e seducente che non manca di ammaliare il Gentil Sesso (oltre alla Seigner gli si concede, sia pure per «oscuro» interesse, la splendida Lena Olin) e le platee di mezzo mondo.
Eppure, diabolica ironia, non fu questo il caso. «Un nobile fallimento», decretò Frank Langella commentando i (poco meno di) 19 milioni di dollari incassati dal film negli States (58 nel mondo, a fronte di un budget di 38). «Non andò bene, ma vanta molti spunti originali ed è girato magnificamente».
Non solo. Invita a porsi domande. A congetturare.
Non un film irrisolto, come in molti l’hanno definito. Un film stimolante.

Stefano Leonforte

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