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Captain Marvel

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VOTO: 7

La mossa del gatto

E niente. Le produzioni Marvel non riescono ad essere banali giocattolini da intrattenimento fine a se stesso nemmeno volendolo. Nel caso di questo Captain Marvel gli appetiti cinefili risultavano già ampiamente stuzzicati dai nomi coinvolti in cabina di regia, cioè quelli della coppia ultra-indipendente composta da Anna Boden (peraltro prima donna a dirigere un lungometraggio Marvel) e Ryan Fleck conosciuti nei nostri lidi almeno per Half Nelson (2006) con Ryan Gosling ad interpretare la controversa figura di un insegnante tossicodipendente ma dai lucidi ideali. Premesse mantenute. Perché Captain Marvel – dal fumetto omonimo creato dal compianto Stan Lee, giustamente omaggiato prima del film, e Gene Colan nel 1967, con il supereroe ad identità variabile, anche sessuale – non è solo la risposta Marvel alla Wonder Women dei DC Comics, bensì una vera e propria riscrittura di un universo fumettistico perfettamente reso attraverso un brillante viaggio tra quei generi classici che hanno scritto pagine di storia del cinema statunitense. Un pregevole lavoro di contaminazione che vede il film diretto da Boden e Fleck saldamente costruito su un’impalcatura da spy-story, come ovvio arricchita da abbondanti dosi d’azione, dove le apparenze ingannano e nulla è come appare, allo stesso modo dei vari capisaldi del genere.
Sintetizzando al massimo – e senza spoilerare – siamo nel 1995. La Terra è divenuta campo di battaglia tra due forze aliene, i Kree – dai quali è stata “adottata”, a seguito di un incidente, l’eroina del titolo, la pilota di caccia Carol Danvers – e gli Skrull. Ma chi è davvero buono e cattivo? La sceneggiatura – opera degli stessi registi assieme a Geneva Robertson-Dworet – lavora di fino su tale ambiguità di fondo, non risparmiando continui ribaltamenti e colpi di scena. Ivi compreso un gatto dal pelo rosso e dalle molte sorprese, determinanti ai fini di questa lotta aliena all’ultimo, metaforico, sangue. La tela narrativa che collega ogni prodotto Marvel, oltre che dal tradizionale post scriptum sui titoli di coda, vede la presenza di Nick Fury (sempre impagabile Samuel L. Jackson, ringiovanito digitalmente per l’occasione), al quale spetta anche il compito di alleggerire il lungometraggio con riuscite parentesi umoristiche. E del quale scopriremo l’origine della famosa banda nera posta sull’occhio sinistro. Al resto pensa la protagonista, interpretata dalla sempre ottima e seducente Brie Larson, messa al centro di tortuoso percorso narrativo di reminescenza identitaria. Ed è proprio in questo frangente che si palesa la natura neanche troppo sotterraneamente indie di Captain Marvel: messe da parte le fantasmagorie spettacolari, pur presenti, affiora tutta l’umanità di un personaggio riassunta dalla sua memoria infine recuperata. Poiché gli alieni avranno anche dalla loro parte una tecnologia avanzatissima, ma non la capacità di rialzarsi dopo una qualsivoglia caduta. E che in tempi storici di muri innalzati, sovranismi imperanti e razzismi mai sopiti pronti a risvegliarsi, sia proprio un personaggio femminile a rendere concreta una rivoluzione pan-universale con relativo inno alla diversità e conseguente pacificazione pare davvero un atto artistico (perché non considerarlo tale?) autenticamente rivoluzionario.
Non solo, dunque, la supereroina Captain Marvel si candida come unica degna erede del puro idealismo di un Superman; ma ci regala anche l’attesa conferma del modo in cui il cinema, persino quello con lo sguardo in prevalenza rivolto alla voce incassi, sappia guardare molto oltre il triste presente che viviamo. Definiamole pure utopie, per chi si trova d’accordo; eppure sono senza dubbio tali istanze che aiutano a sopravvivere nei tanti, troppi, momenti durante i quali la storia dell’umanità ha attraversato lunghi coni d’ombra.

Daniele De Angelis

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