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Bulbul Can Sing

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VOTO: 6.5

Peccato mortale

Le scuole di cinema rappresentano il principale bacino dal quale la Settima Arte attinge ogni anno per provare a dare nuova linfa vitale all’Industria dell’audiovisivo, a patto che questa esista alle diverse latitudini e a seconda della nazione di riferimento. Poi ci sono registi e registe che hanno scelto percorsi diversi per quanto concerne la formazione, preferendo a quello accademico un percorso da autodidatta, ottenendo risultati degni di nota. È il caso di Rima Das, sceneggiatrice, produttrice e cineasta che, nelle sue opere, lavora anche alla fotografia e al montaggio. Nata e cresciuta in un villaggio nel nordest dell’India, vive attualmente tra Mumbai e l’Assam, terra quest’ultima dove è ambientata la storia al centro della sua terza fatica dietro la macchina da presa dal titolo Bulbul Can Sing, presentata in concorso al 29° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina dopo le anteprime a Toronto e all’ultima Berlinale nella sezione “Generation”.
La pellicola ci conduce nella campagna idilliaca di un villaggio dell’Assam, laddove tre adolescenti alla ricerca della propria identità vivono con serenità una tenera amicizia. Alla soglia dell’età adulta, ben presto dovranno affrontare le dure leggi di comportamento di una società patriarcale. Le prime esperienze d’amore metteranno a dura prova la loro amicizia e la loro libertà.
Cristallino, dunque, il baricentro drammaturgico e narrativo su e intorno al quale ruota e si sviluppa il film, ossia quello del coming of age, con tutto il carico di temi al seguito chiamati ad alimentare lo script prima e la messa in quadro poi. Le traiettorie e le dinamiche del racconto sono dunque quelle convenzionali del romanzo di formazione, per cui non si registra nulla di particolarmente rilevante in tal senso. Ciononostante l’autrice trova il modo di tenere a sé lo spettatore con un turning point efficace ai fini della fruizione che cambia drasticamente tanto le sorti dell’opera quanto quelle dei tre giovanissimi e intensi protagonisti. Il passaggio della linea dall’adolescenza all’età adulta, che si materializza sullo schermo attraverso la dolorosa e cruda scena del pestaggio sul monte, cambia pelle al racconto, spostando l’attenzione dalla crescita allo scontro “corpo a corpo” dei protagonisti con le dure leggi non scritte della Società arcaica alla quale appartengono. Pensiero, ideologia, religione, tradizioni e riti di ieri si confrontano a viso aperto con quelli dell’oggi, ma a pagarne il prezzo più alto, ciascuno a proprio modo e con conseguenze differenti, sono Bulbul e i suoi amici.
Ne scaturisce un film spaccato letteralmente in due da una cesoia che restituisce toni diametralmente opposti, con una prima parte gioiosa e spensierata che lascia spazio ad una seconda più tragica. Non c’è dubbio sul fatto che il secondo atto sia più solido ed emotivamente coinvolgente. Ed è proprio a causa di questo cambio di passo, che evidenzia una maggiore sicurezza, solidità e forza drammaturgica, che si evince una certo livello di discontinuità.
A dispetto del titolo, che data la terra natia della produzione potrebbe lasciare presagire sviluppi in salsa bollywoodiana, Bulbul Can Sing è un’opera che fa del realismo il suo biglietto da visita. Quindi nessun siparietto danzante o canoro ad animare le scene, al contrario qui la musica e il canto rappresentano un tormento e un disaggio per il personaggio principale. È questo disilludere le attese l’elemento che più abbiamo apprezzato del film, oltre alle interpretazioni e ai tocchi di lirismo visivo che la Das riesce a piazzare in più di un’occasione (vedi il finale sulla spiaggia) sulla timeline.

Francesco Del Grosso

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