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Brotherhood

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VOTO: 8.5

Il ritorno del figliol prodigo

Se il fiuto e gli occhi non ci ingannano quello che abbiamo ammirato in Brotherhood è la dimostrazione tangibile di un talento indiscusso del quale siamo sicuri sentiremo presto parlare. In tal senso, consigliamo caldamente agli addetti ai lavori e al pubblico di prendere nota del nome di colei che lo ha scritto e trasposto così da tenerlo sott’occhio. Questo perché lo short firmato dalla scrittrice e regista tunisino-americana, Meryam Joobeur, è di quelli che non passano inosservati all’interno di una line-up e non a caso la sua è stata una delle visioni più folgoranti del 29° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, laddove si è aggiudicato due riconoscimenti tra cui il premio per il miglior cortometraggio africano. E se queste sono le premesse allora attendiamo con trepidazione di vedere come l’autrice riuscirà a trasferire sulla lunga distanza il plot, del quale è stato annunciato l’imminente sviluppo. Il margine di ampliamento narrativo e drammaturgico, infatti, è decisamente vasto  e il potenziale intrinseco di riuscita lo è altrettanto. Non ci resta dunque che aspettare l’evolversi di un progetto che potrebbe segnare l’esordio nel lungometraggio della Joobeur.
Nell’attesa facciamo però un passo indietro e torniamo a Brotherhood. Siamo al seguito del giovane Malik, che dopo anni passati a combattere per l’Isis torna a casa dal padre pastore con una moglie che nasconde sotto il suo velo un passato misterioso. La mancanza di dialogo tra lui e il padre e l’orgoglio impediscono una vera riconciliazione e perdono. Mentre i fratelli minori lo riaccolgono felici, il padre si fa sempre più sospetto. Cosa accadrà in questo intenso e duro dramma domestico lo potrà dire solo la fruizione, ma una cosa vogliamo anticiparvela senza spoilerare nulla: non sarà facile mandare giù il boccone amarissimo di un epilogo doloroso quanto crudele.
La pellicola ha nel rapporto conflittuale tra un figlio e il proprio padre il baricentro narrativo dal quale nascerà una ramificazione di temi universali e dal peso specifico non indifferente. Un peso che la scrittura riesce senza problemi e con sicurezza a gestire con una solida costruzione a più livelli tematici. Dal rapporto generazionale lo spettro si allarga come in un sistema fluido di vasi comunicanti ai legami familiari, al romanzo di formazione, alla religione e alla radicalizzazione. E da questo “magma incandescente” di materie prime emerge un altro argomento chiave e delicato, ossia quello del problema nel gestire il ritorno degli ex combattenti dell’Isis nelle rispettive case, da molte famiglie vissute come un motivo di vergogna e disonore. Brotherhood fa luce su questo problema sul quale si preferisce tacere. Qui sta l’altro grande merito di un’opera dove si fronteggiano a viso aperto la purezza dei luoghi e della gente che lo popola con il ventre materno di una terra che ha coltivato per anni in sé il seme dell’odio di coloro che si sono schierati a favore del terrorismo. Una potentissima dicotomia questa accolta in una un’architettura non stratificata ma scarna e mirata all’essenzialità di un racconto fatto di dinamiche lineari e in primis di sguardi e silenzi.
L’assoluta mancanza di musica per lasciare spazio all’onnipresente fischiare del vento riflette il naturale fluire delle emozioni, le stesse che arrivano anche dal lavoro davanti e dietro la macchina da prese. Il tutto all’insegna del realismo, della verità e di un rigore formale (camera a mano “sporca” attaccata ai personaggi) che non mette alla porta un certo gusto per la composizione dell’immagine al contrario lo esalta anche grazie alla scelta del formato 4:3. La messa in quadro che ne deriva è il risultato di uno stile già maturo, tipico di chi sa cosa dire e di come dirlo mediante il linguaggio, gli strumenti e la punteggiatura che la Settima Arte mette a disposizione.

Francesco Del Grosso

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