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Borders, Raindrops

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VOTO: 7

Barriere invisibili

È estate e Jagoda, una ragazza di città, va a trovare la famiglia che vive in uno sperduto villaggio dei Balcani, poco sopra il Mare Adriatico: un’area in cui la guerra ha distrutto le comunità locali e ridisegnato i confini tra Bosnia-Erzegovina, Croazia e Montenegro. Qui Jagoda ritrova i suoi cugini: Zdravko, trentanovenne ancora single, e il piccolo Luka, che con l’amico Danilo sfugge alla noia andando in giro in bici e stuzzicando un poliziotto croato, Nikola, annoiato quanto loro, di guardia all’ennesimo confine tra Croazia e Bosnia, nel bel mezzo del nulla. La presenza di Jagoda porta un pizzico di amore e speranza, aiutando i cugini ad affrontare i loro problemi e a trovare pace e riconciliazione in un mondo sempre più diviso.
La sinossi di Borders, Raindrops lascia ampiamente intuire quello che poi la successiva visione non potrà fare altro che confermare, ossia che si possa parlare di conflitti, identità e radici con toni più leggeri, attraverso i quali provare a stemperare l’aurea drammatica che si respira e alleggia nell’atmosfera, nel mood e nel background storiografico. In tal senso, l’opera prima di Vlastimir Sudar e Nikola Mijović, presentata nel concorso lungometraggi della 37esima edizione del Bergamo Film Meeting, punta su colori diversi per dipingere sullo schermo l’ennesimo dramma contemporaneo a sfondo post-bellico, incentrato su tematiche universali assai dolorose e delicate sulle quali è facile scivolare. Sta proprio in questa scelta e sul tipo di pennellata narrativa e drammaturgica utilizzata, che per certi versi riporta la mente a No Man’s Land, l’elemento che permette alla pellicola scritta e diretta dalla coppia di cineasti ex jugoslavi di lasciarsi preferire ad altre opere precedenti che hanno optato per il medesimo approccio alla materia.
Il rispetto e lo humour intelligente qui si fanno portatori sani, insieme a un evidente amore viscerale nei confronti di tutti i personaggi chiamati in causa, per rievocare le ferite ancora aperte del conflitto balcanico. Ferite che sono cicatrici e segni ad oggi presenti sull’epidermide topografica delle aree geografiche interessate, ma che in Borders, Raindrops sono più vive che mai nelle menti di chi le ha vissute sulla propria pelle ma anche di chi le ha ereditate come nel caso dei giovanissimi protagonisti del secondo atto. Il racconto polistrumentale e corale, con la bravissima Kristina Stevović (Jagoda) a fungere da collante e angelo custode tra i due episodi che sorreggono l’architettura generale, porta sullo schermo questa e altre riflessioni, appoggiandosi di volta in volta anche al dramedy sentimentale e a quello generazionale. Di conseguenza, ciò che prende forma e sostanza sia narrativa che stilistica è un film nel film con un minimo comune denominatore. Il risultato è un incontro di due corpi filmici e drammaturgici uniti dai temi, da un personaggio ricorrente e dalla stessa leggerezza, ma al contempo indipendenti e autosufficienti. Ciascuno a suo modo con punti di forza e fragilità nella scrittura che finiscono con il creare un equilibrio che non permette il sorgere di insanabili fratture nella struttura portante.
Discorso valido pure per la messa in quadro, anch’essa volutamente diversificata nella scelta delle soluzioni visive, nel ritmo e nella punteggiatura, laddove il primo atto viene reso attraverso un rigore formale che a long take fissi alterna lentissime carrellate. Esattamente il contrario di una drastica accelerazione nel secondo che ha nella macchina “sporca” a mano lo strumento per mostrare e dettare i tempi della narrazione. Il tutto supportato di tanto in tanto da lampi di poesia che si palesano nei due capitoli (vedi i sogni), a testimonianza anche di un certo gusto nella composizione dell’immagine da parte degli autori, entrambi formatisi al Central Saint Martins di Londra.

Francesco Del Grosso

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