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American Sniper

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VOTO: 7.5

Il senso della guerra

Come sovente accaduto nella filmografia di Clint Eastwood opere che all’apparenza possono sembrare superflue aggiungono in realtà un nuovo tassello all’indagine tutta personale sul significato più profondo di essere, sentirsi americani nel corso delle varie epoche. American Sniper (fuciliere americano, traducendo su due piedi) è, in prima istanza, un film sulla guerra. Come lo sono stati anche, limitandoci a titoli recenti, i due immensi Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, entrambi girati nel 2006 poiché da leggersi come opera unica, riguardante due facce della medesima medaglia. Cambia, rispetto ai due film appena citati, l’ambientazione storica: lì il secondo conflitto mondiale, qui la guerra in Iraq post-11 Settembre. Una differenza che si avverte in ogni istante del film. Si prende di nuovo in esame, ovviamente, il punto di vista propagandistico a stelle e strisce. Se Flags of Our Fathers era un resoconto, quasi cronachistico, del modo in cui la macchina bellica nazionale ha strumentalizzato e schiacciato la singolarità di individui in perfetta buonafede, in American Sniper i rapporti si ribaltano, dato che a prevalere è la scelta personale. Chris Kyle – questo il nome del personaggio principale, realmente esistito – è infatti un uomo che crede nella guerra come difesa preventiva della libertà del proprio paese. In possesso di una mira pressoché infallibile, gli viene assegnato il ruolo di cecchino a copertura delle truppe. In poco tempo diventa una leggenda, tanto da acquisire quello stesso soprannome: The Legend. Dai commilitoni di strada è considerato una sorta di angelo custode, capace di vegliare su di loro. Ma è anche l’unico ad intravedere dei valori in una guerra d’invasione più atroce delle altre. Ad interpretarlo un Bradley Cooper – anche produttore – imbolsito e mono-espressivo che rappresenta il vero tallone d’Achille di un’altra pellicola in tutto e per tutto riconducibile alla poetica eastwoodiana, sia pure con sfumature differenti. D’accordo che il personaggio interpretato da Cooper dovrebbe assurgere a simbolo, maschera rappresentativa di un certo ceto sociale statunitense; ma Cooper in molti momenti lo fa apparire una sorta di Big Jim inanimato, fatto questo assai poco confacente allo specifico film nonché al cinema di Eastwood in generale, quasi sempre caratterizzato da un’ottima direzione del cast.
American Sniper comunque è, tra le altre cose, un riuscito film antropologico su quel tacito patto familiare che si instaura tra colleghi, spesso riduttivamente definito cameratismo. Kyle, pur avendo negli Stati Uniti una donna che lo ama (un’intensa Sienna Miller) con la quale, nel corso del film, andrà a formarsi una famiglia, sente irresistibile il richiamo dell’Iraq, dove ci sono quegli uomini che lui considera un altro, autentico, surrogato di famiglia, persino più importante di quella effettiva e biologica. Ecco spiegato il ritorno per ben altre tre volte, dopo le relative licenze, in territorio iracheno. Nonostante l’orrore scaturito dall’obbligo di scelte drammatiche, completamente fuori da qualsiasi sfera di etica personale come ad esempio quella di premere il grilletto contro un bambino che potrebbe costituire una minaccia verso altri soldati americani. Queste sono le sequenze in assoluto più riuscite di American Sniper, quando Eastwood riesce a caricare il suo film di un’incommensurabile valenza morale. Il cecchino diventa una sorta di essere divino, in grado di scegliere se dispensare o meno la morte nei confronti di un proprio simile. Nemico e tuttavia perfettamente umano in senso speculare. Nella sua ultima fatica l’ormai ottantaquattrenne Clint Eastwood decide di “sporcarsi” in toto le mani, catapultando personaggi e spettatori nella completa barbarie della violenza. Scendendo anche, quando necessario, i metaforici gradini del cinema di genere, privilegiando la pura azione standosene accuratamente lontano da qualsiasi (pre)giudizio morale. La forza di American Sniper risiede tutta nei personaggi che lo animano; uomini e donne che si muovono, scelgono, manifestano convinzioni e timori con una naturalezza tale da farci dimenticare per gran parte del tempo l’esistenza di una sceneggiatura pregressa che pecca talvolta in didascalismo – soprattutto nella primissima parte – ma riesce a preservare un’encomiabile uniformità di toni pur inseguendo diverse piste narrative.
L’Eastwood regista si abbandona persino a qualche insolito – per il suo cinema – virtuosismo, come accade nella risolutiva sequenza in cui Kyle affronta in maniera definitiva la propria nemesi, un cecchino siriano evidentemente cooptato in Iraq ed ex campione olimpico. E tuttavia sempre mantenendo un mirabile distacco dall’incandescente materia trattata, molto simile ad un completo annullamento autoriale: il regista è lì per mostrare, non per suggerire messaggi etici che, giustamente, andranno magari componendosi nella mente di chi guarda al termine della visione. Ed anche questo accade puntualmente, dopo un finale brutale che distrugge l’illusorio castello di carte faticosamente costruito dalla propaganda stessa: non quella politica dell’allora Presidente George W. Bush – peraltro mai nominato, nel film – ma quella spirituale insita in ogni “buon americano” strenuamente convinto di vivere nel paese più libero e, per questo motivo, migliore del globo. Anche negli Stati Uniti d’America le guerre “giuste” non creano miti o eroi da venerare. Solo vittime da piangere oppure, nella migliore delle ipotesi, ricordare per qualche tempo. In un conflitto permanente che si combatte ogni giorno non solo in paesi lontani, ma pure appena oltre la porta di casa.

Daniele De Angelis

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