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American Assassin

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VOTO: 6.5

Macchina da guerra

Era destino che Mitch Rapp, il giovane (anti)eroe creato dalla penna di Vince Flynn per un ciclo di romanzi di successo negli U.S.A., trovasse infine una propria dimensione cinematografica. Magari non era nelle previsioni un’attesa così lunga – il primo libro, pubblicato nel 2010, fu immediatamente opzionato dalla CBS Film come del resto gli altri – condita da tribolazioni produttive e relativo via vai di registi e attori, con Edward Zwick e Chris Hemsworth dapprima candidati a coprire i ruoli rispettivamente dietro e davanti la macchina da presa. Trovare quindi in questo parto travagliato e definitivo di American Assassin i nomi di Michael Cuesta in cabina di regia e Dylan O’Brien (protagonista della mini-saga Maze Runner) potrebbe lasciar pensare ad un’operazione un po’ al ribasso rispetto alle aspettative di partenza. Il risultato è però un lungometraggio certamente controverso per la sua natura intrinseca, non troppo originale nella struttura e tuttavia non privo di elementi di interesse.
L’efficace prologo ci catapulta nell’idilliaco panorama di Ibiza, dove Mitch, con tanto di ripresa dal cellulare, fa la sua proposta di matrimonio alla bella Katrina. Luogo splendido ma momento decisamente sbagliato, perché di lì a poco terroristi dell’Isis – ovviamente non nominata nel film – irrompono sulla spiaggia compiendo una strage. American Assassin si premura dunque di fornire al suo protagonista un insopprimibile, e in buona parte giustificato, desiderio di vendetta. Mitch Rapp diventa catalizzatore e simbolo di un’America ferita a morte dal terrorismo e che non può assolutamente esimersi dal proprio ruolo di gendarme del mondo. La prima ambiguità propugnata dal film risiede proprio in questo sottotesto affatto trascurabile: l’occhio per occhio è sempre giustificato oppure non fa altro che generare altre violenze e vendette? American Assassin, cercando da subito l’empatia spettatoriale nei confronti del protagonista, non fa però scattare la scintilla morale del dubbio ma dà per scontata una risposta affermativa a tale quesito. Inizia così la metamorfosi di Rapp, il quale, dopo aver imparato l’arabo e studiato a memoria il Corano, si infiltra autonomamente nelle linee nemiche prima di essere forzatamente precettato dalla C.I.A. come autentica macchina sterminatrice. Il proseguo del film si adagia sui binari collaudati dell’action spionistico simil Jason Bourne, con la decisiva differenza che Cuesta non è Paul Greengrass e non riesce a far acquisire una compiuta tridimensionalità al personaggio principale. Lo schema narrativo odora di già visto: addestramento militaresco per mano del finto duro Stan Hurley (Michael Keaton, presenza sempre carismatica), coinvolgimento in azioni in giro per il mondo con finalissimo a Roma nella cornice popolare di Corviale (!!) e scontro finale con una sorta di nemesi del tutto speculare a quella di Rapp.
Dispiace che il televisivo ma bravo Cuesta, non ben supportato da una sceneggiatura a più mani sin troppo revisionata, abbia abbandonato l’afflato civile presente nel suo lungometraggio precedente La regola del gioco (Kill the Messenger, 2014) in favore di una spettacolarità non troppo problematica ma anzi dal sapore piuttosto reazionario, tesa soprattutto ad intercettare il gusto del pubblico. Ad ogni modo, pur con le sue ripetizioni alla lunga superflue, American Assassin fornisce, magari non troppo consapevolmente, un ritratto inquietante dell’America di oggi; un paese in cui la prevenzione del pericolo terroristico può portare a conseguenze decisamente più gravi nell’ambito di una guerra combattuta in modi non convenzionali poiché collocata in una zona d’ombra dove tutto appare lecito e giustificabile. Altamente simbolica e molto riuscita, comunque, la sequenza dell’esplosione nucleare nel mare antistante Fiumicino, con tanto di lavaggio depurante di scorie da parte della flotta statunitense di stanza in quelle acque. Vecchi sensi di colpa mai sopiti che tornano periodicamente a galla?

Daniele De Angelis

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