Home Festival Berlino 2019 About Some Meaningless Events

About Some Meaningless Events

141
0
VOTO: 7

Parliamo di cinema

All’interno della Berlinale, si sa, una delle sezioni maggiormente affascinanti è proprio la sezione Forum, dedicata alla versione meno mainstream della Settima Arte, con uno sguardo attento anche al cinema sperimentale. Non stupisce, dunque, che la maggior parte delle belle sorprese venga proprio da qui. A tal proposito, un’interessante visione ci è stata offerta dal lungometraggio About Some Meaningless Events, realizzato dal regista marocchino Mostafa Derkaoui nel 1974, ma distribuito – dopo un’unica proiezione a Parigi nel 1975, con conseguente ritiro da parte della censura – soltanto in occasione di questa 69° edizione della Berlinale, dopo essere stato ritrovato nel 2016 – con conseguente restauro – nella cineteca della Catalogna.

La visione in anteprima di un prodotto così importante per la storia del cinema marocchino è, dunque, un vero e proprio privilegio, in quanto ci troviamo davanti a una sorta di manifesto della politica marocchina degli anni Settanta, nonché davanti a un’interessante riflessione sul modo stesso di fare cinema e di rapportarsi a esso.
Ciò che vediamo è, inizialmente, un gruppo di persone nell’atto di intrattenersi durante una festa. Le voci sono confuse, a stento si riesce a seguire il filo di un solo discorso. Poi, improvvisamente, qualcuno urla: “Stop!” e ci rendiamo immediatamente conto di essere su un set cinematografico. O meglio, il set è, in questo caso, un ambiente reale, così come in location reali sono state girate le scene successive, in cui vediamo lo stesso regista, insieme a una ristrettissima troupe, fermare la gente per strada (o, a seconda delle volte, all’interno di qualche locale) chiedendo cosa significhi per loro il cinema e cosa si pensa, nello specifico, del cinema marocchino. A tutto ciò si aggiunge anche la storia di un giovane attore, il quale, costretto a fare numerosi lavori per arrivare a fine mese, finisce in giri loschi, uccidendo accidentalmente un suo datore di lavoro.
Interessante vedere come, dunque, all’interno di questo progetto nato soprattutto dalla voglia di denunciare la situazione politica del tempo e la condizione di chi lavorava in ambito artistico o culturale, i vari generi si mescolino tra di loro per dare vita a qualcosa di totalmente nuovo e unico: dalla “classica” spy story si passa al genere documentaristico, senza dimenticare l’importantissima componente metacinematografica, vera anima dell’intero lavoro, il quale, sotto molti aspetti, sta a ricordarci il bellissimo Salam Cinema (1995) di Mohsen Makhmalbaf.
Un film, questo, che, volendo, potrebbe essere considerato, a tratti, eccessivamente sfilacciato, con uno script poco compatto e trovate realizzate all’ultimo che, tecnicamente parlando, non sempre convincono. Eppure, come già precedentemente indicato, ciò che è evidente al termine della visione, è che il presente lavoro è nato praticamente di getto in seguito all’esigenza di denunciare la situazione politica e culturale attuale. Quale documento migliore di questo, dunque, per conoscere a fondo un’epoca? D’altronde, fino a prova contraria, una delle funzioni della settima arte è anche questa.

Marina Pavido

Articolo precedenteSo Long, My Son
Articolo successivoSex Education

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

6 − 5 =