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Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza

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VOTO: 8

Quadri di vita

Leone d’Oro alla 71^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, come recita il titolo italiano) di Roy Andersson risponde con le immagini al concetto di Mostra e alla domanda di coloro che si son stupiti per la vittoria. L’ultima opera del regista svedese, per la concezione ideale ed estetica che sottende il progetto, può essere doppiamente chiamata tale. Non vogliamo far un gioco di parole, ma, forse, ancor più in questo caso i termini sono importanti e “opera” non viene usato come mero sinonimo di pellicola, ma per suggerire il connubio Arte e Settima Arte che avviene nell’ultimo lavoro di Andersson.
Ideato come trentanove scene da dove emergono uomini e situazioni buffe, “misere” e talvolta ripetitive, il film di Andersson colpisce proprio per questa struttura, per il modo di mettere in quadro e, al contempo, suggerire “l’incontro con la morte” (ce lo dichiara una didascalia). Il terzo incontro con Thánatos si dipana lungo diversi quadri, apparentemente separati tra loro, ma che si richiamano sottilmente, situazioni che riprendono dopo esser state intervallate da altre e lo spettatore è lì, ammaliato dalla forma originale, curioso di sapere cosa accadrà. A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence chiude la trilogia sull’esistenza iniziata nel 2000 con Songs From the Second Floor (vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes) e proseguita nel 2007 con You, the Living. Ad accomunare questi tre capitoli (che, però, potrebbero essere anche considerati a sé stanti) è la commedia declinata soprattutto con sfumature grottesche. Nell’ultimo troviamo luoghi ordinari (come il ristorante, l’aeroporto, il barbiere, i binari della stazione) e location dal sapore anacronistico (Carlo XII di Svezia (Viktor Gyllenberg) che irrompe in un bar), tutti abitati da donne e uomini in cui non ci specchieremmo immediatamente, apparendo “strani” e dai toni esagerati. Eppure la rappresentazione dell’assurdo – Beckett docet – può colpire più di tanta “normalità”. «Possono finire. Tutta la vita le stesse domande, le stesse risposte» controbatte Clov ad Hamm in “Finale di partita” lì dove quest’ultimo si dimostra refrattario di fronte al cambiamento delle cose perché è più rassicurante il gioco vecchie domande-vecchie risposte.
Immaginiamo che Andersson, memore di questa lezione, abbia voluto cercare il proprio modo per mettere in scena il teatro dell’assurdo grazie alla macchina cinema e all’elegante umorismo nordico. Siamo noi i primi a recitarlo nella nostra ordinarietà; poi, grazie a una raffinata confezione che ben si mescola con una narrazione in cui il gioco lo conduce – in questo film più che mai – il regista-sceneggiatore, apriamo gli occhi e (sor)ridendo ci specchiamo o fantastichiamo. Ed è così che ci ritroviamo nel 1943 nella taverna di Lotta la Zoppa (Charlotta Larsson) di Göteborg – un flashback delizioso – per poi intenerirci di fronte a due venditori – Stanlio e Ollio dei giorni nostri – che dicono di proporre articoli con cui la gente possa divertirsi, ma la loro mimica è ben più eloquente dei denti da vampiro che vendono.
Non è facile rapportarsi a A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence, ma se ci si lascia guidare potrebbe essere una piacevole scoperta. Per quanto la scelta della giuria di Venezia 71 sia stata giudicata da molti come “iper-cinefila”, vista la coraggiosa decisione della Lucky Red di distribuire il film in Italia, potrebbe essere l’occasione per rompere determinati schemi e iniziare a coinvolgere non solo il pubblico super-appassionato di cinema. Purtroppo il regista svedese non è molto conosciuto nel nostro Paese e il premio veneziano potrebbe essere un traino per scoprire un cineasta che ha un gusto dell’estetica spiccato, ma non fine a se stesso come, a volte, accade. Dal punto di vista figurativo, Andersson ha dichiarato di essersi fatto ispirare da Otto Dix («aveva uno stile particolare e nei suoi quadri era sempre chiaro il focus dell’opera»), Georg Scholz e Bruegel il Vecchio ed è guardando a questi esempi che la qualità visiva assume un valore importante alla pari della narrazione. Ognuna di quelle trentanove scene porta con sé uno studio approfondito dell’inquadratura alla ricerca di luci (che evocano Hopper), dinamicità e profondità di campo tali da trasmettere un senso di immobilità e immortalità.
Se Beckett usava le parole per trasmettere il sorriso tragicomico con cui pennellava i suoi dipinti esistenziali, qui Andersson usa il Cinema, poche parole (talvolta le stesse – la frase: «Mi fa piacere sentire che le cose vi vanno bene» la sentiamo più volte in bocca a persone diverse) per farci vedere tanti microcosmi che, uniti, danno corpo alla Storia.
Sappiate che nello stesso film troverete un’insegnante di flamenco (Lotti Törnros) che mira a uno dei suoi studenti (Oscar Salomonsson) e dei colonialisti britannici che spingono gli schiavi in un cilindro di rame (e non vogliamo svelarvi altro). Buffo, vero? Ricordatevi che son tutte visioni di un piccione che, da un ramo, medita sull’esistenza.

Maria Lucia Tangorra

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